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Killer Joe

Regia di William Friedkin vedi scheda film

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La recensione su Killer Joe

di EightAndHalf
8 stelle

Matthew McConaughey è killer Joe, mezzo uomo  e mezzo poliziotto, cappello da cowboy quasi eastwoodiano ma ben più truce e perversamente crudele, un cappello che sembra indirizzarlo definitivamente sulla strada della vera recitazione come sarà poi quella che lo contraddistinguerà in Dallas Buyers Club (ma su questa bravura ci si sta crogiolando fin troppo, diciamo che finalmente è diventato attore, ma niente che giustifichi ulteriori elogi: poi sa recitare solo con il cappello?). Emile Hirsch è Chris, per metà film con la faccia pulita normale, giusto un po’ macchiata dalla droga che usa e di cui abusa sul cattivo esempio di un padre ubriacone e ottuso, e per l’altra metà del film con la faccia scurita dai lividi procurati dopo un pestaggio più che violento. E infine, ultima ma non ultima, Juno Temple, che manco fosse la Juno del film di Jason Reitman è una giovincella prosperosa più che mai anticonformista, quasi da film americano indipendente (appunto) dopo che la si è vista tanto propositiva e paradossalmente tenera nello spiritato Kaboom di Gregg Araki. Lei è Dottie, sorella di Chris e nuova possibile amante-caparra di killer Joe, che in assenza (e in attesa) dei soldi che gli spettano per l’omicidio della madre di Chris, la cui morte concede libero accesso a un’assicurazione di ben 50.000 dollari per il figlio e i familiari, richiede esplicitamente di godere delle grazie della giovane Dottie facendola addirittura innamorare di sé ma non per questo esentandola da un trattamento alla stregua di un oggetto proprio come elaborano e accettano Chris e padre, appunto, per garantire la portata a termine del piano. Di mezzo c’è pure Sharla, nuova moglie del padre di Chris, che con un suo amante misterioso avrà un ruolo fondamentale. Se poi si aggiungono sangue ad ettolitri e una sceneggiatura brillante che pure non risente dell’origine teatrale, ecco che si profila lo spietato Killer Joe in tutta la sua capricciosa irriverenza, brutale quanto divertente rivisitazione di una delle solite trame quasi coeniane della profonda provincia americana solcata da violenza, ipocrisie e finti affetti familiari. Un girone dell’inferno, questo Texas, in cui tutti si dimenano nella disperata ricerca di un denaro che già da tempo ha smesso di produrre felicità, ma è più che altro unica possibile via di sopravvivenza di fronte a un pericolo costante causato, oltretutto, dalla propria inettitudine. Di umanità, in Killer Joe, non se ne vede neanche con la lente di ingrandimento: è tutto ripicche, adulteri, vendette, pestaggi, esplosioni, rancori, un fritto misto di grande coerenza cinematografica che Friedkin impacchetta come un classico dei nostri tempi, riuscendo a incanalare la violenza e la sua barbara crudeltà (che lo porta a fare davvero ciò che vuole dei suoi personaggi) negli stretti antri dell’ironia e del grottesco, mai in maniera grossolana o qualunquista, ma con una forte dose di verve che rende il film invero scivoloso, a suo modo arzigogolato, incredibilmente avvincente. Stringe infatti lo spettatore intorno alle azioni più o meno umane dei suoi personaggi, carnefici di loro stessi e della loro stessa natura, precipitati in un vortice di quotidiana follia in cui non ci si pone troppi problemi se si assolda qualcuno per uccidere la propria madre, ché tanto lei li ha odiati, i figli, e certo non provava per loro un sentimento sincero (e questo non stupisce, visti i giri e i raggiri che i vari familiari elaborano gli uni ai danni degli altri). È in questo desolante quadretto familiare che Killer Joe fa il suo ingresso, come in un business, in un giro di affari e loschi intrighi a volte pensati a volte buttati lì a caso, e fa il suo ingresso con un semplice accordo che lo vede nuovo amante della giovane Dottie, merce di scambio abbastanza ingenua da potersi rivoltare solo inconsciamente in un sonno disturbato dal sonnambulismo. È Dottie alla fine a fare la differenza (se mai davvero il finale è un cambiamento di sorta all’interno di una storia destinata all’autodistruzione), ed è lei stessa a portare al suo zenit l’ultima meravigliosa sequenza folle, distruttiva, disarmonica, capace di evitare l’eventuale opera a tesi e beffardamente irrisolta in maniera tale da spiazzare abbastanza da condannare tutti e talmente tanto da non concludere la storia, che pure poteva finire in un solo modo, per come si era complicata e per come si era intrecciata inestricabilmente con la desolazione fangosa di insofferenze e di satiriche esistenze. Quella sola possibile fine non la si raggiunge, viene lasciata in asso, nel pensiero dello spettatore: l’importante è il livello di assurdo che si viene a creare come conseguenza di tutti gli eventi, e a quel punto il mare di merda che ha inondato tutti i personaggi è un alluvione che non lascia via di scampo.

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