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Killer Joe

Regia di William Friedkin vedi scheda film

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La recensione su Killer Joe

di pazuzu
8 stelle

«La depravazione è negli occhi di chi guarda».
William Friedkin

In una buia e tempestosa notte texana, un pitbull legato a catena - fiutando sventura - abbaia e ringhia verso un ragazzo che con grida e pugni alla porta cerca di svegliare gli abitanti di un grosso caravan: è Chris Smith, in fuga dall'ennesima lite con la madre Adele, separata alcolizzata e isterica, che l'ha cacciato di casa per esser stata da lui picchiata dopo avergli rubato due once di coca; e lì dentro c'è il resto della sua famiglia. Ad aprirgli, con addosso una maglietta ma senza mutande, è la matrigna Sharla, che si mostra per nulla sorpresa e anche meno accogliente, e con la quale, prima di una velenosa buonanotte, ingaggia una breve colluttazione condita d'insulti e minacce; al lì presente padre Ansel ha da dire qualcosa di molto importante, preferibilmente al riparo dalle orecchie indiscrete della megera, ma anche da quelle dell'ingenua sorella minore Dottie, che è chiusa nella sua stanza ma per via del fracasso non dorme. Non prima, ovviamente, di essersi fumato un po' dell'erba ch'egli stesso - spacciatore da strapazzo - gl'ha venduto.
Vinte le sue resistenze con le maniere forti, lo porta a bere birra in un locale per soli uomini, per spiegargli il proprio problema e proporgli la possibile soluzione: il problema è che, per colpa della coca rubatagli dalla madre, ha un debito di seimila dollari con dei tipi poco raccomandabili e molto convincenti che lo accopperanno se non restituisce il dovuto; la soluzione è che ha saputo che la madre stessa ha un'assicurazione sulla vita che in caso di decesso ne garantirebbe cinquantamila a Dottie, scelta come ignara beneficiaria, e che per il lavoro sporco potrebbero rivolgersi a tal Joe Cooper, un agente della contea di Dallas che arrotonda ammazzando su commissione.
Subito intrigato dalla prospettiva di mettere le mani su una cifra per lui decisamente fuori portata, Ansel si affretta ad intimare al figlio che la torta, oltre che per loro e Dottie, dovrà prevedere una fetta anche per Sharla; Chris ingoia amaro ma accetta, poi i due tornano, parcheggiano il pickup fuori casa e ci restano, per pianificare l'incontro col killer e per convenire che la fragile Dottie dovrà avere il denaro ma restare all'oscuro di tutto, scoprendo però subito dopo che non solo lei li ha sentiti parlare, ma che è anche piuttosto d'accordo: far fuori la mamma è una buona idea.

A cinque anni dal thriller psicologico Bug, William Friendkin torna al cinema, e lo fa scegliendo ancora un testo teatrale di Tracy Letts (che nel frattempo ha vinto il Pulitzer per la drammaturgia 2008 con August: Osage County), il fortunato Killer Joe, affidando, ora come allora, allo stesso autore il compito di trarne una sceneggiatura. Il risultato è un film dal ritmo vertiginoso, le atmosfere rancide ed uno spiccato senso del grottesco, che non si perde in fronzoli e che grazie ad un gran lavoro sugli attori e a dialoghi incalzanti, spesso sboccati ma mai superflui, introduce con chirurgica precisione tra le dinamiche di una famiglia pesantemente disfunzionale, con un padre sempliciotto, privo di polso e a corto di ambizioni, una seconda moglie volgare ed infedele, e due figli (di primo letto) non più ragazzini ma tutt'altro che maturi, l'uno un fesso che ambisce a fare il duro, un perdente patentato capace solamente di arrecare danni a sé stesso e agli altri, l'altra un bruco che non riesce ancora a diventar farfalla, supposta tonta ma in realtà solamente chiusa nei confronti di un mondo orribile, mai gratificata da un attestato di stima e mai ritenuta degna di partecipare alle discussioni né tantomeno alle decisioni, nemmeno quando la riguardano direttamente.
Chiamato in causa esclusivamente per compiere il delitto che permetterebbe agli Smith di passare alla cassa, il sicario Joe Cooper si inserisce in questo quadretto tutt'altro che edificante in pianta ben più stabile del previsto quando, data l'impossibilità di vedersi pagato anticipatamente il compenso, propone ai due uomini di casa, avendola appena conosciuta ed essendosene infatuato, di concedergli Dottie come caparra in natura. «Chissà, magari le farà bene» è la massima riflessione che il padre riesce a concepire, ignorando il bisogno di libertà ed emancipazione di una ragazza ancora vergine che sogna un amore puro ed innocente, e che come una dodicenne si confida con la Barbie che ha sul comodino e dorme con ai bordi del letto un castello di legno in scala con un principe azzurro seduto sul tetto che la guarda, le sorride, la desidera. Il detective assassino - che calandosi da uomo marcio in un contesto altrettanto malato l'ha stravolto passando dal ruolo del dipendente a quello del padrone - si insinua coattamente nella sua vita, cinico e calcolatore ma anche educato e gentile, si inoltra in territori inviolati, proponendole un modello, seppur ancora autoritario, finalmente alternativo, nel quale lei è donna sessualmente compiuta e compiacente, e nel quale per la prima volta può aspirare ad osservare il mondo da una prospettiva che non ha come epicentro le quattro mura domestiche.

Destreggiandosi con assoluta scaltrezza tra gli eccessi di personaggi che altro non sono se non i degni figli di una società svuotata sotto il profilo etico morale e culturale - dove il movente di ogni azione sono i soldi od il sesso, dove è nelle cose architettare per un tornaconto l'omicidio di un proprio parente, dove ogni vittima può diventare carnefice, e dove stupidità cinismo e cattiveria si incontrano e si fondono generando abissi di violenza ed abiezione -, Friedkin esorcizza il male che la divora da dentro, seppellendo ogni speranza sotto una coltre di ironia tagliente e feroce ma restando tuttavia oltremodo serio, proponendo il tutto con stile secco e rigoroso, azzeccando almeno un paio di sequenze da ricordare (quella sensuale e perversa della cena con consumazione tra Joe e Dottie, e il quasi pornografico pompino di Sharla ad un coscio di pollo fritto) e permettendosi di azzardare, tra le pieghe di un thriller ammantato di caustico humor nero, anche una (in)credibile, (im)possibile e (anti)romantica storia di quasi amore tra diversi. Ed all'interno di un cast in forma splendida (adeguatamente ipercinetico Emile Hirsch nella parte di Chris, gustosamente apatico Thomas Haden Church in quella di Ansel, svergognatamente 'botulinica' Gena Gershon in quella di Sharla) è proprio tra gli interpreti di questi due ruoli che va scelto il migliore: dove se da un lato la sorprendentemente disinibita Juno Temple è abilissima nel rendere credibili le regressioni infantili della sua Dottie, dall'altro Matthew McConaughey è sontuosamente a suo agio nel donare magnetismo e carisma al suo folle ma garbato Joe, un tutore dell'ordine sociopatico e doppio che pare uscito direttamente dalla penna di Jim Thompson.

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