Regia di William Friedkin vedi scheda film
Solo a sentire parlare di William Friedkin tornano in mente capolavori come L’Esorcista e il suo terrore universale; Il braccio violento della legge che riscrisse il genere poliziesco vincendo l’Oscar. Vivere e morire a Los Angeles che segna con cupo nichilismo l’estetica pastello degli anni 80. Questi ma non solo questi. Cinema muscolare e viscerale, una messa in scena sempre compatta e potente portatrice di un immaginario violento ma mai fine a sé stesso. La poetica di Friedkin aderisce alla natura stessa del cinema. La violenza è nell’occhio di chi guarda e l’occhio per eccellenza del cinema è quello della telecamera.
Killer Joe da questo punto di vista non si risparmia, dopo il thriller claustrofobico uscito da noi solo straight to video, Bug, con Michael Shannon paranoico rinchiuso in un appartamento in preda ad una psicosi autodistruttiva, Friedkin esce dall’appartamento per entrare nella roulotte (o casa mobile) di una famiglia allo sbando nel Texas contemporaneo.
Chris (Emile Hirsch), piccolo spacciatore nei guai con i boss della droga, vuole uccidere la madre per intascare l’assicurazione. In combutta con il padre Ansel (Thomas Haden Church) e la nuova moglie di lui, Sharla (Gina Gershon ) ingaggia un poliziotto locale con l’hobby dell’omicidio su commissione: Joe Cooper (Matthew McConaughey) Non avendo i soldi richiesti in anticipo Chris acconsente a dare al killer una “caparra” in natura, sua sorella Dottie (Juno Temple) che non si tira indietro affatto. Joe diventa così un membro della famiglia in attesa di portare a termine il suo lavoro.
Una storia di normale brutalità sospesa tra il pulp che occhieggia a Tarantino e il neo noir contemporaneo dei Coen Bros. che fa dell’ignoranza e dell’abbruttimento il sub strato sociale capace di generare comportamenti aberranti. Quello che c’è di nuovo in questo film di Friedkin è l’ironia che sgorga quasi inconsapevolmente dalle goffe faccende criminali nelle quali si imbarcano i quattro poveri cialtroni.
E c’è una bella differenza tra i criminali veri, professionisti, eleganti e padroni di sé, meticolosi e d’aspetto gradevole. Gli improvvisati sono i disperati al tempo della crisi che rincoglioniti di televisione cercano di aderire ai modelli noir dai torbidi intrighi fatti di passione e soldi che proprio la televisione propone. E’ un immaginario ristretto in 32 pollici, come la casa si restringe in una roulotte, la città si riduce ad un ammasso sub urbano di fabbricati dismessi e gli spazi sconfinati del Texas vengono sostituiti da interni ingolfati di corpi sfatti e arresi all’evidenza che vivere, non è per tutti. Resiste un simbolo dello spazio negato della frontiera del Far West, il cappello da cow boy di Joe ridotto ormai a feticcio di calcolata ambiguità. Un lone ranger senza ragione né morale, l’uomo nero delle favole che ha preso carne e si è perfettamente inserito nella realtà demente dello sfascio del nucleo base di ogni società: la famiglia.
La compressione genera violenza, la ristrettezza dello sguardo coincide con il degrado morale capace di sacrificare sull’altare del denaro facile (facile davvero?) gli affetti più cari. Al di là di ogni considerazione sociologica - anche Kim ki duk con Pietà ha trattato della vendita di vite in cambio di denaro , indice di un sentire comune che globalizza una certa visione del mondo – Killer Joe è compatto e risoluto come un film di genere, dove ogni personaggio basta a sé stesso e esprime in modo monolitico la propria natura. La violenza allora sgorga come naturale conseguenza, frizzante, beffarda, caotica. Nulla a che vedere con gli eleganti noir trasmessi dalla televisione che mostrano sempre come va a finire – Sharla, la moglie di Ansel lo sa e lo dice - ma nonostante questo i personaggi di Friedkin sono attratti dall’abisso e non fanno nulla per sottrarsi alla logica conseguenza delle loro azioni. Il confronto con l’uccisione in bianco e nero trasmessa da un film e la brutale mattanza finale è sorprendente, dislocante un futuro già arrivato a compimento. Non è un paese per vecchi, né per bifolchi, né forse per i supercattivi superati ora da una razza superiore per sfrontatezza e mancanza di moralità. Gli innocenti. Ma stupidi. Ne’ vittime ne’ eroi , sono personaggi scarnificati dall’acido di una vita inutile. E la violenza, lo sguardo che penetra all’interno del meccanismo della prevaricazione, è una naturale conseguenza di quella vita. Cambia solo il modo di perpetrarla.
Friedkin costringe ad assistere ad ogni aberrazione con partecipato ludibrio. Il personaggio di Sharla viene introdotto mostrandone la topa. Chi guarda è innocente o colpevole? Lo sguardo dello spettatore è diverso da quello dell’ignorante e inerte padre di Chris che assiste alla mattanza della moglie e del figlio? Il film è scandito da lunghe scene, tirate allo spasimo, invasive. Cinema e occhio si scambiano di posto e si guardano a vicenda in una struttura quasi teatrale (opera scritta nel 1993 dal premio Pulitzer Tracy Letts qui anche autore della sceneggiatura), dalle scene tirate allo spasimo e dal ritmo allentato e dolente. I lunghi duetti tra i personaggi, verbosi, surreali e sarcastici, preludono a incontrollate esplosioni di rabbia e violenza mostrata in tutta la sua salvifica crudezza. Killer Joe è un film cattivo e divertente, amorale e lucido, uno scherzo crudele di smodata violenza fisica e psicologica e sorretta da un’ironia sardonica sull’ignoranza e la stupidità che muove i reietti, direttamente colpevoli del proprio degrado. Un grande film.
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