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Killer Joe

Regia di William Friedkin vedi scheda film

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La recensione su Killer Joe

di (spopola) 1726792
8 stelle

Una “moderna” pellicola di forte impatto realizzata da un attempato e geniale ultrasettantenne. E’ insomma un ritorno davvero in grande stile quello di William Friedkin, perché questo film è veramente una straordinaria conferma del suo talento (e anche una magnifica rivisitazione aggiornata ai tempi nostri di un genere a lui particolarmente caro)

E’ un ritorno davvero in grande stile quello di William Friedkin, perché questo suo Killer Joe, passato anche dalla Mostra di Venezia 2011 è veramente una straordinaria conferma del suo talento (e anche una magnifica rivisitazione aggiornata ai tempi di un genere a lui particolarmente caro).
Una “moderna” pellicola di forte impatto insomma che se non conoscessimo la storia, e soprattutto i dati anagrafici del suo autore, non immagineremmo mai che è stata realizzata da un attempato ultrasettantenne, ormai impegnato su più fronti e molto attivo anche qui in Italia persino con le regie teatrali che gli permettono di “revisionare a suo modo” ma con un gusto molto rispettoso verso la musica e il senso di ciò che è chiamato a mettere in scena,  opere liriche non troppo “consumate” dall’uso – vedi la pregevolissima e competente interpretazione (parlo ancora del “versante” musicale traslato nei movimenti e nella recitazione )  persino meno dark di quanto si sarebbe potuto immaginare visto l’argomento, ma molto “sensuale”, de L’affare Makropoulus di Leos  Janacek realizzata proprio qui a Firenze al Teatro dell’Opera nell’ottobre dello scorso anno con una strepitosa Angela Denoke e l’insinuante direzione del maestro Metha “in assoluta sintonia di intenti” col regista che già una decina di anni fa ci aveva regalato un cupo e dilacerato Woyzeck di Berg altrettanto pregevole.
In perfetta linea con il suo cinema crudo e violento che ha sempre una visione mai del tutto definita nella suddivisione fra “buoni e cattivi” con i contorni che spesso sfumano e si confondono gli uni negli altri quasi senza soluzione di continuità, Killer Joe, tra cult, pulp e noir, non è certamente un film per palati deboli (ma a questo il regista ha già da tempo abituato gli spettatori poichè rimane forse uno degli aspetti più affascinanti e coinvolgenti del suo cinema che qui trova una inusuale conferma in percorso creativo che non disdegna di trovare soluzioni persino un po’ spiazzanti virate verso l’esasperazione del grottesco).
Non si smentisce quindi  nemmeno con questa sua ultima fatica (arrivata dopo sei anni di silenzio – cinematograficamente parlando)  che si potrebbe definire, a seconda dei punti di vista, una commedia nera (o anche un “noir grottesco”), oppure una tragedia della stupidità umana, ma dove proprio l’ironia graffiante così efficace e prepotente come mai prima d’ora si era manifestata nelle sue pellicole, si alterna con successo ad improvvise esplosioni di violenza anche estrema, ma formulata come se si trattasse di un “gioco” (o di un riferimento voluto e in parte esasperato proprio da quell’essere “sopra le righe”) che sembra volerlo avvicinare in alcuni snodi un po’ paranoici del racconto, alle modalità travolgenti di una narrazione che vorrei definire (ma solo come riferimento di comodo però, poiché le scelte e i risultati sono alla fine totalmente autonomi) tipicamente tarantiniana nell’approccio generale molto scanzonato e irriverente.
Killer Joe è dunque un’opera che per essere gustata appieno richiede la massima attenzione (e disponibilità) da parte dello spettatore che deve “accettare” questo nuovo punto di vista (che vorrei chiamare “evolutivo”)  che se conferma in pieno la mano salda del regista, si rinnova però nello stile, poichè si lascia totalmente alle spalle le modalità espresse da un passato glorioso sul quale riesce a costruire un presente altrettanto stimolante di chi non intende restare seduto sugli allori e preferisce aggiornarsi per rimanere al passo con la storia – cinematograficamente parlando, s’intende - ed essere “attuale” e non stantio. Se se ne coglie lo spirito, se si accetta di non poter aver di fronte non dico un nuovo Esorcista, ma nemmeno un epigono che riproponga con analoga forma il cupo pessimismo di  Vivere e morire a Los Angeles  (che a mio avviso rimane ad oggi il suo capolavoro insuperato) vi assicuro però (questo è per lo meno il mio personale punto di vista) che il film è capace di risvegliare e mantenere una partecipazione attiva dello spettatore fino in fondo, una qualità questa che sempre più di rado si riscontra nelle troppe opere omologate e quasi liofilizzate che soprattutto dal mercato hollywoodiano ci vengono propinate annualmente, e di regalare momenti di assoluto divertimento (ma anche di sgomento) nella rappresentazione di una umanità cinica e stoltamente inadeguata che incarna (e distrugge) alla perfezione  il sogno americano ormai ridotto a brandelli, e che qui implode fragorosamente dentro le sue stesse contorte ambizioni.
Come in tutto il suo cinema, la messa in scena delle cose è studiata  nei minimi particolari, e rappresentata con l’opulenza della forma a cui ci ha ormai abituato Friedkin (anche nelle sue prove più discutibili), a partire dalla bellissima sequenza di apertura (lo scatto di un accendino Zippo che si infiamma, seguita da una scena in cui Gina Gershon  saluta il suo figliastro quasi cordialmente, un “ritrovarsi” che degenera subito dopo in un match sonoro a base di brutali schiaffoni realistico e sorprendentemente veritiero). Un incipit di fortissima presa dunque, capace di “agganciare” subito il pubblico e di calarlo dentro l’infermo di una famiglia evidentemente – e dichiaratamente - disfunzionale sempre in bilico com’è fra violenza, sesso e il troppo bere, sullo sfondo di un Texas squallidamente “sporco” e sufficientemente “disturbato” con i suoi parchi sorvegliati dai pit-bull e i troppi gangster in  circolazione a fare da giusta cornice a questa narrazione esasperatamente “sopratono”.
La fonte letteraria di riferimento, è un lavoro teatrale del premio Pulitzer Tracy Letts (sua anche la stesura della sceneggiatura), che ha saputo rigenerare tutta la storia con belle e intelligenti intuizioni tutte cinematografiche. Letts ha infatti lavorato di cesello, adeguando il suo testo originario ai giusti rimi e alle cadenze richieste dalla più dirompente forma  del un racconto in immagini che deve avere inevitabilmente una differente costruzione dinamica rispetto al palcoscenico. La vicenda è un “classico” persino un po’ logorato (ma come dico sempre io, non è  importante ciò che si racconta ma come si racconta), un “tutti contro tutti” insomma (gli inglesi lo definirebbero “dog eat dog” – cane mangia cane) che ha per protagonista proprio quella famiglia degenerata e terribile a cui accennavo sopra. Una famiglia che di cognome fa “Smith,” che corrisponde (e non è certo un caso) a quello più diffuso e comune in America, tanto per restare “sulle generali”,  composta da un giovane spacciatore, Chris, da sua sorella Dottie (verso la quale il giovane nutre malsane pulsioni fortemente incestuose), dal loro padre Ansel, e dalla nuova compagna di lui, Sharla.
Perseguitato da un gangster locale, al quale deve più denaro di quanto egli possa mai sperare di poter ripagare con i suoi traffici illegali e inesorabilmente bloccato in questa situazione estrema fortemente destabilizzante e senza sbocco, in una notte di pioggia Chris irrompe così all’improvviso nella roulotte dove vive la sua famiglia per convincerla a organizzare un piano finalizzato ad assassinare la sua madre naturale (verso la quale lui ha più di un conto in sospeso) per poter poi riscuotere l’assicurazione che la donna ha sulla vita e porre di conseguenza fine ai suoi guai. Consapevole di non essere in grado di compiere in prima persona l’omicidio (né di avere in famiglia qualcun altro “con le palle” per portare a termine la missione) dopo aver trovato l’accordo sul da farsi, Chris, con il contributo creativo della restante triade diabolica della sua famiglia, decide di ingaggiare Joe Cooper (interpretato da uno spavaldo, insolito e soprattutto inedito quanto efficacissimo Matthew McConaughey qui alla sua prova più matura  e “creativamente” intensa dell’intera sua carriera), poliziotto “gentile” ed elegante di giorno quando è in servizio, ma che nei suoi momenti liberi, notti comprese,  svolge per contro e con successo, proprio la mansione di feroce killer a pagamento. Il poliziotto assassino però pretende giustamente di essere pagato in anticipo per la sua prestazione criminale – soldi che Chris e tantomeno la sua famiglia hanno. Così, in mancanza del denaro necessario, viene offerta al killer come caparra … umana, l’innocente (ma non troppo) sorellina Dottie, un personaggio fra il tonto e l’ingenuo che rivelerà però nel corso del racconto risorse davvero inaspettate…
Da questo momento in avanti, i colpi di scena, le alleanze e i ribaltamenti, si susseguono a ritmo sempre più incalzante, parallelamente all’irritazione crescente del pericoloso Joe non solo perché teme di non riuscire a riscuotere il suo compenso, ma anche e soprattutto per l’instaurarsi di un legame quasi surreale (e ambiguamente complesso) fra lui e la ragazza che gli crea non pochi scompensi e qualche problema.
Come di prammatica, il regolamento dei conti arriverà puntuale  e sanguinoso, ma solo nel finale,  con tutta la famiglia riunita per il pranzo attorno a un piatto di pollo fritto, in una apparente ritrovata armonia  improvvisamente rotta proprio dall’arrivo di Joe. Una sequenza questa davvero memorabile, già diventata e meritatamente un cult tanto è grottesca e delirante, a suo modo un vero e proprio campionario di crudeltà espansa ma invero molto stralunata, dove  (vedere per credere) persino una coscia di pollo può diventare un anomalo ma efficacissimo strumento di tortura.
Nessuno può ovviamente salvare dai pasticci in cui si è cacciata, questa famiglia amorale  disposta a tutto (anche a vendere cara la pelle) per pochi dollari, pericolosa proprio per la sua stupidità, esattamente come erano stupidamente “impreparati” ad affrontare il male, anche i personaggi che popolavano l’universo corrotto di Fargo dei fratelli Cohen, un’altra pellicola con la quale può vantare qualche punto di “riferimento” soprattutto ideologico però, perché diversa è invece la costruzione degli eventi. La corsa verso questo  percorso di involontaria autodistruzione, è raccontata infatti da Friedkin con tutt’altro stile e con uno sguardo implacabilmente impietoso e poco “rispettoso” davvero personalissimo con il quale però fornisce un analogo spaccato al vetriolo non solo della miserevole famiglia, ma dell’intera collettività sociale, che non viene nemmeno mitigato dal forsennato incedere dell’autore che sembra divertirsi un sacco nel virare spesso ogni cosa verso quella dimensione del “grottesco” accentuando proprio quasi fino al parossismo finanche i toni più violenti della messa in scena, che magari danno un’immagine più sorniona dell’insieme e un tantino “metafisica” che non inficia però minimamente il risultato complessivo già chiaramente espresso in tutto il suo virulento vigore fino dall’inizio, e che è poi quello di cercare di tenere alto il…”disgusto” (lo vogliamo chiamare così? A me sembrerebbe un termine particolarmente appropriato) dello spettatore verso una società sempre più allo sbando priva di etica, di valori e di morale, affondando con prepotenza anche se in una maniera insolita, il coltello nella piaga, fino a toccare il cuore nero (e i nervi scoperti) dell’America più devastata e marginale e delle sue contraddizioni sempre più evidenti.
La forma è smagliante come già detto, lo stile sostenuto e attento (solo qualche piccolo calo di tensione nella parte centrale del racconto) ben supportato dalla pastosa fotografia di Caleb Deshanel e dal ritmo serrato del montaggio. L’altro vero punto di forza però, è costituito proprio dall’eccellente contributo offerto da un team di interpreti in “stato di grazia”: della prestazione particolarmente impressionante (soprattutto se confrontata  con i suoi abituali standard) di McConaughey nella parte di Joe, l’assassino psicopatico con tutti quei feticci sessuali estremi che si porta dietro, ho già accennato prima. Di altrettanto particolare rilievo è però anche il ritratto che la convincete e brava Juno Temple ci fornisce di una ragazza più sorprendente che ingenua come Dottie,  vero deus ex machina di tutta la vicenda, anelante a staccarsi dalle circostanze orrende in cui è costretta a dibattersi, ma dalle quali viene travolta suo malgrado anche a causa di contrapposte pulsioni  sessuali che la rendono un appetitoso oggetto un po’ patologico del desiderio. Accanto a loro, spicca con la consueta professionalità la più contenuta, ma altrettanto inappuntabile prova di Emile Hirsh (Chris), e quelle ugualmente positive di Thomas Haden Church (Ansel, il padre di famiglia) e di Gina Gershon (Sharla).

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