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Twixt

Regia di Francis Ford Coppola vedi scheda film

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La recensione su Twixt

di davidestanzione
6 stelle

L’ altra giovinezza che la carriera di Francis Ford Coppola ha conosciuto negli anni zero, con il ritorno alla regia del leggendario autore italoamericano dieci anni dopo “L’uomo della pioggia”, non smette di regalare spunti di riflessione e opere curiose, simili a delle schegge avulse da qualsiasi discorso sistematico intorno ad un’idea di cinema precostituita: filiazioni strambe di un regista che giunto alla senilità si prende tutti i rischi del caso, infischiandosene largamente di tutto e tutti.

Forte di un’indipendenza produttiva totale grazie alla sua American Zoetrope, Coppola si concede adesso tutti quegli "agi" che spesso e volentieri gli sono stati negati in una carriera piena di disavventure produttive e collassi annunciati, scongiurati e talvolta effettivi. Le ingerenze dei produttori gretti Coppola le conosce bene, e finalmente si può concedere il lusso di affrancarsene (anche se non è detto che lavorare in un clima di tensione sia necessariamente controproducente, vista la genesi di qualche suo capolavoro...).

In “Un'altra giovinezza” (il ritorno dietro la macchina da presa cui si alludeva, datato 2007), Coppola regala una riflessione sul tempo che affronta beatamente il ridicolo e lo aggira con la classe filosofica e la flemma di un cinema sperimentale che si cela dietro le maglie di una bolsa classicità. Niente di memorabile, ma resta comunque un esempio di cinema rarissimo.
Così come il successivo “Tetro”, fosca saga familiare in bianco e nero ambientata in Argentina attraverso la quale Coppola ripercorre ancora una volta le sue ossessioni, tematiche e grafiche: il rapporto coi familiari riversato specularmente nella finzione cinematografica, le zone d'ombra dei corpi privati del colore e caricati di densità espressiva come in un quadro (“Rusty il Selvaggio”), il mélo che irrompe teatralmente e fisicamente sulla scena, in un’indimenticabile e assai plastica sequenza.

Nel suo nuovo film (si far per dire, dato che è già passato sia a Torino che a Toronto salvo poi essere clamorosamente ignorato dai nostri distributori), il già discretamente chiacchierato “Twixt”, il nuovo cinema coppoliano continua su questa linea di beata autarchia e stavolta affonda le mani in un altro dei guilty pleasures del regista: il gotico vampiresco, venato di fuoriuscite sentimentali e romantiche non indifferenti.
Date le premesse, gli echi stilistici di questo prodotto a basso costo non possono non essere, manco a dirlo, profondamente cormaniani. Se ispirato allo spirito del leggendario patrono di una delle più gloriose factory del cinema americano era già l’esordio di Coppola,  “Terrore alla tredicesima ora”, oltre naturalmente al suo discusso ma ancora incantevole “Bram Stoker's Dracula”, “Twixt” si pone ovviamente sulla medesima scia ma si adatta al nuovo gusto del coppola postmoderno: per l’appunto, una mistura inestricabile di sperimentalismo selvaggio - luci bluastre, lenti degli anni d’oro del suo cinema e filtri che manco un 20enne folle e avanguardista alle prime armi, nonchè un uso seminale e controcorrente di un 3D che nelle prime proiezioni del film prende addirittura forma dal vivo - e classicismo un po' forzato, ai limiti del risibile.

“Twixt”
è apparentemente così già visto e classico, nel senso deteriore del termine, da sembrare il consueto romanzo horror di quart’ordine, sciatto e poco curato, una sorta di Stephen King della Tuscolana: Hall Baltimore (un Val Kilmer ormai ineluttabilmente gonfiato come un canotto ma tutto sommato bonariamente funzionale, una tacca sopra i suoi ultimi imbarazzanti ruoli) è uno scrittore di romanzi horror la cui carriera ha imboccato la via del declino. Una sorta di ipernutrito King di provincia, fragile e senza troppe ambizioni, che se conosce così bene le streghe sarà perché ne ha sposata una. Giunto a Swan Valley, una piccola cittadina della California, in occasione di un tour promozionale del suo ultimo libro, lo sceriffo locale Bobby LaGrange gli racconta della storia macabra di una ragazzina uccisa barbaramente con un paletto di legno conficcato nel cuore, una storia perfettamente calzante allo spirito dei suoi romanzi.
Nel finale, a Hall appare il fantasma di una ragazza di nome V (Elle Fanning, sempre più brava) che lo accompagnerà sui sentieri poco luminescenti di un bosco oscuro, sulle tracce dei propri ricordi dolorosi e di quel rimosso biografico che ne rende assai sofferto il perpetrarsi dell’esistenza.

Detto così, lo snodo più interessante del film sembrerebbe di fatto il finale, e in effetti così è. Nelle sequenze finali Coppola concentra un’altissima densità espressiva e un’ispirazione cristallina che alza di molto l’asticella qualitativa rispetto al resto del film, aprendo squarci autentici del regista che fu: la morte del figlio Gian Carlo, avvenuta nell’86, episodio drammatico che ha segnato profondamente Coppola e che lasciò tracce già in “Peggy Sue si è sposata”, viene qui nuovamente ripreso e rievocato attraverso il dolore del personaggio di Kilmer che si cruccia per non essere stato un padre presente, per non aver potuto far nulla per evitare la morte della figlia.
Tra immagini nebulosissime e scambi di sguardi che restituiscono la dolcezza umana di qualsiasi turbamento, Coppola riscatta un filmetto fino a quel momento piuttosto medio, danzante sui territori di un 3D buono ma molto illustrativo e cromaticamente cartoonesco.
A un certo punto compare perfino, a passeggiare accanto al protagonista, il simulacro tangibile del fantasma di Edgar Allan Poe, interpretato da Ben Chaplin, che non può non suggerisce una riflessione forse divagante ma comunque assai suggestiva: sembra infatti che tutti e tre i registi di “New York Stories” abbiano sentito l’urgenza impellente, giunti a questo punto delle loro carriere, di dare corpo e consistenza fisica alle icone che fungono da motivi ispiratori delle loro pellicole; Allen in “Midnight in Paris” dà corpo e sembianze reali a tutti i suoi miti dipartiti degli anni ’30, nel bellissimo “Hugo Cabret” Scorsese ricrea George Meliès attraverso il corpo di Ben Kingsley e infine Coppola, come detto, dà qui vita a un altro pioniere iconico e assoluto di un ben noto genere letterario, il romanzo cosiddetto nero.
Il cinema di questi indiscussi maestri del cinema americano sembra dunque andare a ricercare la consistenza dell’ispirazione originaria, come in un percorso a ritroso che si sdebiti nei confronti dei suoi padri letterari o cinematografici ponendoli al centro quali pilastri nevralgici, punti di congiunzione, arterie che riconducono ad un solo ed unico cuore pulsante.

 

I veri meriti di “Twixt”, però, al di là della bellezza compositiva ed emozionale degli ultimi minuti, albergano tutti in un preciso discorso metatestuale e metafilmico. Si tratta infatti a tutti gli effetti un piccolo film perfino metaletterario, attraverso il quale Coppola riflette sull’atto della creazione filmica tout-court incrociandola a quella letteraria in una sorta di cortocircuito trasversale.

Ondeggiando tra un gustoso ma sterile citazionismo il più delle volte decisamente divertito e toni sicuramente più riflessivi, Coppola ritrova in forma minuta quel maledettismo compositivo e demiurgico che lo portò al tracollo degli incassi in “Un sogno lungo un giorno”. Qui, però, è tutto molto più piccolo, innocuo e dunque anche meno rischioso. Per lo meno a livello produttivo, senza Las Vegas ricostruite tutte in studio o gigantismi di sorta.

Ma la postura non è meno intellettuale di quella di un tempo e Coppola sembra ancora divertirsi moltissimo  a trastullarsi con quel giocattolo chiamato cinema, che ancora tanto ama e nel quale continua a riversare incessantemente tantissimo di sé. Arrivando, in “Twixt”, ad adocchiare perfino l’autoparodia, del genere in sé ma anche di se stesso. E autoparodiarsi, che spesso coincide in fin dei conti col riproporsi in forma minuta e “ridotta”, si sa, spesso e volentieri è un’arma a doppio taglio. Specie se, piuttosto che prendersi non troppo sul serio, si conservano immutate le enormi ambizioni di un tempo che oggi forse suonano un po' fuori tempo massimo. In fondo, "Twixt" è se vogliamo la pietra tombale del cinema di Francis Ford Coppola, il film che più di ogni altro "discorre" del e sul suo cinema. Celebrando, in qualità di testamento metaforico, le esequie simboliche del mostro assoluto che ha girato pietre angolari della storia del cinema come "Il Padrino - parte seconda", "Apocalypse Now" e "La conversazione".

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