Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
Opera analoga nella filmografia del regista italoamericano.
Chi di Scorsese ha amato quella violenza, quella cupezza e quello sguardo spietato sul mondo e sui rapporti sociali che hanno magnificamente caratterizzato i suoi più importanti capolavori, ad una prima visione di “Hugo Cabret” potrebbe anche restare deluso.
Trattasi infatti di un prodotto dove regnano i buoni sentimenti, tanto che potrebbe essere il perfetto film da vedere a Natale con il caminetto acceso e tutta la famiglia riunita.
E invece sotto c’è molto ma molto di più.
C’è un omaggio sentito, commosso e commovente verso la Settima Arte tutta, della quale Scorsese ripercorre ed evoca la nascita, le origini e quindi soprattutto il muto (a lui tanto caro e qui espressamente citato da spezzoni di vari film; tra i tanti “Intolerance”, “Il gabinetto del dottor Caligari” e “Lulù – Il vaso di Pandora”), mescolando in maniera sapiente e magistrale una storia di finzione con quella (vera) della nascita del cinema.
Ecco allora che “Hugo Cabret” potrà entusiasmare e divertire i più piccini, e allo stesso tempo incantare e illuminare gli occhi degli adulti, i quali capiranno il significato e la provenienza (o almeno voglio sperare vivamente che sia così) di quella luna col proiettile nell’occhio disegnata da un tenero e futuristico robot che sembra provenire da un film di Spielberg.
Nell’evocare questa “età dell’oro” che vede in Georges Méliès il suo pioniere e padre fondatore, il regista (a riprova della sua grandezza e larghezza di vedute) non dimentica l’amaro che si celò dietro i primi anni della “fabbrica dei sogni”: le disillusioni, i problemi economici, la guerra. Tutto ciò viene evocato dai ricordi di un Méliès (Ben Kinsgley sensazionale come sempre) stanco e dimenticato, vecchio sognatore che si è visto crollare il mondo addosso e che racconta le origini di un sogno a un ragazzino che ha solo di recente cominciato a gettare il proprio sguardo sul mondo.
Scorsese ci apre le porte di questo sogno, ci mostra e ci convince di come il cinema sia in fondo magia, puro stupore e meraviglia.
Quando il protagonista porta la Moretz a una proiezione cinematografica, lei lo ringrazia dicendogli di averle fatto davvero “un bel regalo”. In questo si rispecchia il ruolo stesso del regista (nonché il suo rapporto con noi spettatori) e il fine ultimo dell’atto filmico, che altro non è se non appunto un’emozione regalataci dal suo creatore.
Fiume di elogi merita poi la realizzazione, che si avvale di effetti speciali sorprendenti (premiati giustamente con l’Oscar), grazie ai quali viene resa possibile una ricostruzione incantevole quanto perfetta della Parigi degli anni ‘30.
La pellicola poi valorizza il 3D ed è dal 3D valorizzata più di quanto non faccia la quasi totalità dei film d’oggi (anzi, l’efficacia del mezzo è equiparabile forse solo ad altri due o tre film che lo hanno utilizzato nel nuovo millennio), come dimostrano soprattutto la profondità e i dettagli di stanze e corridoi nei quali si muove il protagonista all’interno della stazione ferroviaria.
In definitiva, un atto d’amore verso il cinema mai così sentito ed esplicitamente dichiarato.
Scandaloso mancato Oscar al Miglior Film, andato al meno meritevole “The Artist”.
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