Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
Per chi crede che il cinema sia anche magia e lo considera uno straordinario strumento per sollecitare l’immaginazione, per chi ama e apprezza l’inventiva originale e creativa dei tanti Méliès delle origini, e soprattutto per tutti i veri appassionati di un cinema inteso come arte, la visione di Hugo Cabret sarà un’esperienza da non dimenticare.
Chi non sa niente di Méliès né di cinema muto dovrebbe cominciare da qui.(Paolo Cherchi Usai)
Con Hugo Cabret Martin Scorsese ci ha regalato il suo splendido omaggio al cinema delle origini e a Méliès, e ci è riuscito grazie all’uso consapevole e appropriato che ha fatto dei mezzi messi a disposizione dalla tecnologia moderna (il 3D appunto, una volta tanto e finalmente, diventato un vero e proprio strumento di comunicazione utile e necessario, e soprattutto capace di trasmettere emozioni genuine, esattamente come è accaduto, seppure in altra forma e modo, anche per Wenders e il suo Pina).
E’ stata proprio questa particolare “modalità espressiva” (consentitemi di definirla così) a permettergli infatti di restituire anche a noi, disincantati spettatori della contemporaneità, quel senso di meraviglia assoluta e un po’ sbigottita che era stata per il pubblico di inizio novecento la vera novità attrattiva capace di incantarlo con le sue “magie” nella fase pionieristica della fantastica “avventura” di quella che sarà poi definita e a ragione, “la settima arte”. Un “recupero” innamorato e un omaggio sincero alla creatività di un “mago dello schermo” (Méliès appunto) intessuto di altrettante “prodigiose invenzioni” ricreato e ricostruito sulla scorta (e con qualche variazione) del romanzo di Brian Selznick (visionario perfino nella successione dei fotogrammi fissati sulla pagina), utilizzato dal regista (e dallo sceneggiatore John Logan) come ottima traccia narrativa di una storia che - come sempre accade nel cinema di Scorsese - privilegia comunque sulla parola la forza dell’immagine (che qui diventa potentissimo veicolo di coinvolgimento emotivo) grazie all’indiscussa capacità del regista di “creare” empatia e di veicolarla attraverso la competente conoscenza che ha del mezzo. La sua è infatti una passione profonda e radicata che ha da sempre coltivato a 360° e che ha esplicitato al meglio regalandoci un Cinema (la maiuscola è d’obbligo) importante e strutturato al quale a mio avviso è difficile non riconoscere un valore assoluto anche in questa seconda fase pur così differente dal suo passato più remoto, ma per me – sia pure in differente maniera - ugualmente entusiasmante (mi verrebbe da definirlo “diversamente grande”) perché pur nel suo essersi adeguato al sistema produttivo e alle regole anche sintattiche più universalmente codificate riferite ai generi come invece non aveva mai fatto prima, rendendosi così indubbiamente meno “rivoluzionario” e destabilizzante di una volta, riesce ugualmente ad essere rapinosamente affascinante e personale, ben al di sopra insomma (e di molte spanne) della media corrente, e questa sua ultima fatica ne costituisce una più che positiva conferma. Perché nel raccontare una storia per più di una ragione dickensiana (ma potremmo definirla anche prossima come tematiche a quelle che hanno per protagonisti i personaggi descritti nelle pagine dei romanzi di Victor Hugo o Eugène Sue e di molta altra letteratura ottocentesca) Scorsese utilizza ancora una volta da par suo e con rinnovata energia, il linguaggio universale della scrittura visiva (una terminologia decisamente calzante) che qui diventa davvero perfetta sintesi della ricostruzione mnemonica di quell’epoca lontana. Una memoria però che non è mai intrisa di pernicioso e nostalgico “calligrafismo” descrittivo poichè impiega al meglio, facendoli diventare straordinari elementi di “mediazione” culturale, gli strumenti fornitigli dal progresso al fine di reinventare le “suggestioni” di un cinema artigianale e inventivo non difforme da quello dell’epoca del muto andato in buona parte irrimediabilmente perduto. La sua è di conseguenza una narrazione intrisa di passato ma portata avanti con uno spedito passo di carica secondo i canoni della tecnologia più avanzata, che non lascia per strada né smarrisce nessuno dei sui “succhi” più genuini, e finisce anzi per esaltarne (accettandole, e metabolizzandole) anche le convenzioni più spurie, risultando così per più di un verso pur fra tanta esuberanza figurativa, persino un po’ “naïve” proprio nel suo mettere in scena con strumenti diversi, “l’incredibile” (che è poi una porzione consistente dell’immaginario) esattamente come si faceva nella preistoria dei Lumière e soprattutto con Méliès
Ti sei mai chiesto da dove vengono i sogni? Se vuoi scoprirlo guardati in giro qui sul set, perché è da qui che i sogni hanno origine. (dalla sceneggiatura del film)
Per chi crede dunque che il cinema sia anche magia e lo considera di conseguenza uno straordinario strumento per sollecitare l’immaginazione, per chi ama e apprezza le storie fantastiche e l’inventiva originale e creativa dei tanti Méliès delle origini, e soprattutto per tutti i veri appassionati di un cinema inteso come arte, la visione di Hugo Cabretpuò trasformarsi allora in un’esperienza unica e a tratti commovente, di quelle capaci di sbalordire e di farci regredire nel tempo e tornare così ad essere di nuovo i fantasiosi e curiosi fanciulli di una volta (ma di quelli cresciuti in epoche davvero lontane quando non esisteva ancora la tv né tantomeno i videogiochi o altri similari ambaradan).
Agli occhi dello spettatore dei primi decenni del cinema lo schermo appariva infatti come un luogo collocabile in un terreno che poteva essere definito molto vicino a quello del “sogno” (anche ad occhi aperti) nel suo essere diventato la proiezione visiva di ogni più riposta fantasticheria, l’unica che sapeva concretizzare in immagini tangibili, paure e desideri legati non solo al proprio mondo interiore (e come tale “invisibile”, “inventato”, nascosto e privato) ma anche strettamente connesse al bisogno di aprirsi inediti squarci proiettati nel futuro in un periodo di grandi movimenti, caratterizzato dalla transizione e dal successivo passaggio verso un’era segnata non solo da scoperte epocali, ma anche da nuove dinamiche sociali, e per questo già attraversata da conflitti interni dovuti a un lavoro manuale sempre più indirizzato verso una meccanizzazione progressiva che un po’ spaventava, ma che faceva immaginare un domani pieno di novità aperto alle “scoperte” e alle “invenzioni”, come poi è accaduto puntualmente anche in campo cinematografico. Almeno in questo caso allora l’aver aderito al 3D da parte di Scorsese acquisisce un senso perché l’opzione è sta fatta da un regista che si è posto indubbiamente l’obiettivo di indagare attraverso di esso la profondità di campo (e quindi di “sorprendere”) ma lavorando però sempre in sintonia perfetta con ciò che suggerisce la progressione del racconto e l’espressività della messa in scena, il che determina di conseguenza uno strabiliante effetto di immersione totale nella storia, davvero fondamentale in una pellicola come questa che deve essere necessariamente osservata alla luce dell’epoca di riferimento ma senza dimenticare l’oggi, ed è possibile farlo in virtù di una procedura tutta speciale che consente alla fine di creare un interessante parallelo fatto di rimandi proprio grazie al dispositivo tridimensionale del nostro presente che permette di (ri)stabilire una fortissima relazione connettiva con gli oggetti (dall’automa agli ingranaggi dell’orologio) resa possibile dallo specifico supporto tecnico impiegato che fa sembrare il risultato finale una riflessione teorica su un cinema che diventa a sua volta illusione fantastica affacciata sul passato.
Si badi bene però che il film è stato espressamente concepito per il 3D e che da questo non può assolutamente prescindere, perché l’approccio del regista (e di conseguenza quello del direttore della fotografia Robert Richardson) è stato pensato, organizzato e realizzato, in virtù dei risultati che solo questa nuova modalità di ripresa poteva garantire. Se visto invece in 2D, il film perde purtroppo moltissimo dell’impatto visuale e narrativo immaginato alla fonte e finisce per smarrire una fetta importante di “magia” ed anche di “valore creativo” perché viene a mancargli per esempio l’avvolgente movimento scenico delle carrellate in avanti veramente sorprendenti nella versione in 3D e che Scorsese e Richardson usano proprio come il necessario e prioritario accorgimento capace da solo di far entrare lo spettatore dentro la storia e di rendergliela credibile sia dal punto di vista narrativo che emozionale.
Prendiamo ancora come esempio la polvere degli antichi orologi della stazione di Montparnasse, la neve su Parigi, o le scintille di fuoco dei set di Méliès, tutti elementi così importanti e fondamentali nell’economia generale della pellicola (chi lo ha visto nella prospettiva giusta della tridimensionalità sa di che cosa parlo) da non poterne fare a meno, ma che sono del tutto assenti nella versione “normale” e che quindi se si perdono per strada, finiscono per inaridirne la “forma” rendendola più povera e molto meno inventiva. Elementi dunque di “poesia tecnologica” essenziali per catapultarci all’interno del mondo di Hugo (gli anni ’20) e farci sentire “parte dell’ambiente” con quel loro realistico “caderci” sulla testa che rende il salto temporale e spaziale fluido e naturale e ci consente di percepire quasi sensorialmente, come se li toccassimo dal vivo con le mani, la neve, i meccanismi delle pendole, la polvere sospesa nell’aria e sugli oggetti.
Come già detto dunque, Scorsese usa il 3D non soltanto per renderci veritiera la profondità dei cunicoli della stazione o i complicati congegni che fanno muovere gli orologi, ma anche e soprattutto per farci diventare partecipi (a nostra volta protagonisti in diretta) di un’esperienza unica grazie alle vertiginose soggettive degli inseguimenti, o all’inesausto girare in sincrono di pendole e lancette, con un crescendo a volte anche un po’ rocambolesco ma sempre straordinariamente funzionale a un racconto in cui è proprio il destino, il futuro del cinema a essere osservato con una lente che rende coesistenti, accostabili, sovrapponibili (in un modo non esatto) i primi passi del mezzo e ciò che ancora lo attende (Franco Marineo, Duellanti) nel suo futuro.
In Hugo Cabretdunque gli effetti speciali del 3D non hanno un mero effetto di “abbellimento” compiaciuto della forma (come accade in quasi tutte le altre produzioni che utilizzano questo “sistema”) ma rispondono invece a una specifica esigenza narrativa e sono di conseguenza fondamentali per considerare e valutare l’opera tanto sono abilmente studiati e dosati, curati in maniera tale da attenuare e quasi annullare del tutto persino quell’antipatico effetto di “nausea visiva” per un eccesso di effetti speciali frastornanti che lo spettatore può avvertire a volte a causa degli occhialini spesso fastidiosi. Qui invece niente risulta superfluo poichè ogni singolo elemento ha il compito di ripristinare quell’atmosfera di stupore e curiosità che circondava le platee che assistevano in anteprima assoluta alla traslazione dei fatti della vita sul telo bianco dello schermo a partire dalla scelta delle inquadrature (con il loro frequente alternarsi di primi piani e di carrellate in avanti che planano spesso dall’alto per cogliere così una panoramica più vasta dell’ambiente e proseguire poi in picchiata con il sorprendente utilizzo di fluidi, e spesso vorticosi dolly-in che scendono a mostrarci il dettaglio) che hanno il compito primario di prende per mano lo spettatore per guidarlo e spingerlo su una specie di “scivolo” virtuale capace di rimettere in moto anche la sua creatività mentale che lo proietta dentro una dimensione fantastica e fatata, ma tutt’altro che svincolata dal mondo del reale, senza però fargli minimamente avvertire il possibile spaesamento di una vertigine dovuta al veloce salto temporale che gli viene implicitamente richiesto di compiere, sia pure virtualmente.
E devo dire allora (e veramente) grazie a Scorsese che è stato bravissimo a fornirci l’equivalenza aggiornata di quei lontani sbigottimenti sbalorditi utilizzando l’occhio tridimensionale della stereoscopia dei nostri tempi. Consapevole com’è da sempre del significato che assume un evento quando viene colpito dallo sguardo infatti, esattamente come accadeva agli spettatori di L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat che urlavano o scappavano sotto l’impressione terrorizzante di poter essere realmente investiti dalla locomotiva che avvertivano come lanciata a tutto vapore oltre lo schermo, costringe anche noi più navigati e meno fantasiosi, a provare le stesse sensazioni, poichè come loro torniamo inconsciamente a percepire in nuce proprio le travolgenti potenzialità del nuovo mezzo (il cinema), meravigliati e anche un poco spaventati dall’intensificazione del vero, dalla sua metamorfosi (molto fedele) in artificio perfetto (Ivan Moliterni, Duellanti) che lo schermo stava (e ci sta) regalando e che sembra possa produrre ancora. Lo valuta nel film anche lo stesso Méliès ripensando alla causa della propria rovina: “i reduci che tornavano dalla guerra avevano visto troppa realtà e si annoiavano ai miei film” perché ricercavano l’abbellimento della fantasia ed era soprattutto di quello che avevano bisogno. Se allora Scorsese con la sua moderna rappresentazione avesse rinunciato anche a una sola parte (come purtroppo accade col 2D) del valore emotivo offerto dal “fantasmagorico che diventa di nuovo un viaggio attraverso l’impossibile” l’operazione sarebbe risultata sicuramente parzialmente fallimentare, rendendo persino inutile (o per lo meno poco comprensibile) il suo appassionato omaggio ai “poeti” del cinematografo dei pionieri (Méliès in testa) tributato mettendone in scena la parabola di ascesa, trionfo e caduta in un racconto incastonato dentro la storia principale e perfettamente fuso in essa. La storia di Hugo dunque non è solo un qualcosa che parla “di altri tempi”. E’ anche e soprattutto un racconto che intende toccare temi importanti e profondi quali la relazione con la figura paterna, il sentimento di appartenenza (a una famiglia, a un universo di valori) e dove è preponderante il mondo dell’infanzia e il suo evolversi in formazione alla vita (i flashbacks che ne chiariscono il rapporto col proprio genitore, gli incubi notturni, l’incontro con la ragazzina, i libri).
In parecchie occasioni, quindi, di pari passo con una emotività particolarmente marcata di questa rappresentazione “dell’incredibile”, viene portato avanti anche un progetto didattico altrettanto importante (la spiegazione del ruolo storico delle prime pellicole) ben evidenziato dalla figura dello studioso esperto di Méliès.
Hugo è un ragazzino di dodici anni che vive in una stazione ferroviaria di Parigi negli anni successivi alla fine della Grande Guerra nascosto dentro gli orologi e i loro meccanismi, impegnato ad oliare ingranaggi e a dare corda ai giganteschi cronometri che nell’atrio segnano il tempo. Ha ereditato dal padre, scomparso prematuramente, anche un oggetto misterioso: un automa dalle sembianze umane ritrovato in un museo.
Deciso a scoprire il segreto di quella misteriosa figura inanimata lasciatagli dal padre, prova a cercare di scoprire il modo per farla nuovamente muovere e scrivere (o parlare) e questo suo caparbio desiderio, lo porterà a vivere un’incredibile avventura che gli consentirà di fare la conoscenza di un George Méliès ormai vecchio e dimenticato, quasi fuggito da se stesso.
Quando alla fine grazie anche a una serie di coincidenze fortunate riuscirà finalmente nel suo intento, contribuirà a restituire nel contempo anche la vitalità perduta al burbero, stanco e disilluso Méliès: è questa la sintesi estrema dei fatti narrati dentro una fitta serie di “ammiccamenti” e innamorati riferimenti che si rifanno alla storia del cinema sempre pertinenti e di struggente presa.
Al di là delle innumerevoli citazioni e dei fotogrammi del passato inseriti nella narrazione, degli Chaplin e degli Harold Lloyd ai quali Scorsese guarda con passione,questa è dunque una pellicola che rende il cinema di una volta una creatura che vive di una nuova vita, che torna a funzionare proprio nell’istante in cui prova a riparlare di se stesso e della sua importanza anche storicizzata, nel sottolineare a suo modo i progressivi passaggi a uno sviluppo anche tecnologico che approderà alle “meraviglie” dell’oggi, imprescindibili per rendere possibile persino l’impossibile. Così alla fine è proprio il celebre razzo de Il viaggio nella Luna a diventare il simbolo eloquente di tutto ciò che di nuovo e di bello le logiche dello sguardo hanno prodotto nel Novecento, e delle quali, per lo meno per ciò che concerne il cinema, Méliès ne è l’origine. In quell’icona sono infatti contenuti a mio avviso tutti i presupposti tecnici ed estetici ai quali si ispireranno le generazioni successive degli artisti della settima arte compresa la sua rilevanza sociale, che si esplicita al meglio nell’esperienza comunitaria e condivisa che ha prodotto (la sua fruizione in sala) e che Scorsese (e oggettivamente non poteva essere che lui a farlo) evidenzia attingendo al linguaggio universale della sua strabiliante e sapiente scrittura per immagini, che come già accennato, arriva davvero a farsi sintesi della memoria storica.
La lezione elementare di Hugo Cabretnon è altro dunque che un invito ad aprirsi all’amore e alla conoscenza che il cinema può innescare, perchè per Scorsese il cinema, il lavorarci dentro e “intorno”, diventa uno strumento particolarmente utile (e lo ha dimostrato in più di un’occasione) non solo per comprendere il mondo, ma anche per essere dal mondo conquistati e compresi (e la relazione non può che risultare una continua connessione tra elementi contrapposti che Roberto Manassero (Cineforum) definisce tra carne e metallo, tra anima e tecnologia.
Come ben sappiamo (almeno quelli che amano il cinema e di questo si interessano) il regista ha dedicato il tempo maggiore di questi ultimi anni al lavoro di conservazione, di restauro e di divulgazione delle pellicole importanti che hanno fatto storia e che si stavano inesorabilmente deteriorando, un patrimonio sconfinato che rischiava davvero di andare irrimediabilmente perduto per incuria e malversazione, ed ha di conseguenza passato più tempo nei laboratori di “recupero” e stabilizzazione della celluloide e del suo “nitrato d’argento”, che nella realizzazione di prodotti di finzione, e che in effetti e forse proprio per questo (ce lo ricorda Roy Menarini) hanno diviso più del solito critica e pubblico alla costante ricerca del “capolavoro assoluto” non sempre possibile e quindi pronti a storcere la bocca più del necessario.
Con Hugo Cabret, alla fine però è riuscito a fondere i suoi due “mestieri” (che io definirei più propriamente “passioni”). In questa sua fatica infatti come si può ben comprendere, si incontrano felicemente il “conservatore” e “l’autore”, unitisi insieme per produrre una nuova poetica del cinema intesa come aggiustamento della Storia e come sua riscoperta, che risulta formidabile e commovente(Roy Menarini su Duellanti) nel rendere omaggio non solo agli autori, ma anche al lavoro degli archivisti e dei restauratori che proteggono, salvano dall’oblio e tramandano ai posteri le opere cinematografiche (è lui che ha fondato la World Cinema Foundation alla quale dobbiamo il restauro di pellicole per lungo tempo inguardabili per come erano ridotte, e fra queste e le tante altre cose che ha fatto risorgere dall’oblio, anche Scarpette rossee Narciso Nero di Powell-Pressburger, entrambe riportate agli antichi splendori anche cromatici).
L’identità del cinema è pur sempre una macchina celibe, un dispositivo automatico. Siamo noi, esattamente come Hugo, ad instaurare – grazie alle sue potenzialità latenti – la relazione artistica (e dunque sentimentale) con essa. Basta trovare la chiave giusta per metterla in moto. (Roy Menarini, Duellanti)
Cogliendo dunque al volo le suggestioni del volume di Selznick il regista ci ha regalato un’opera davvero maiuscola, magnifica e capitale, attraversata e vivificata dai fantasmi pulsanti di una cinematografia ormai molto lontana e un po’ in disuso che vi si aggirano dentro e riempiono il film di vedove, orfani, disperati e invalidi, in una Parigi forse fatatamente idealizzata, ma ampiamente segnata dalle crudeltà della prima guerra mondiale e dalle conseguenze sociali da essa derivate e dove (consentitemi la metafora) anche il cinema assume le sembianze di un automa che può essere rianimato dal soffio della poesia e dalla potenza dell’immaginario (nello specifico, il “bambino” metallico -quasi un novello Pinocchio -ideato da Méliès e riesumato dal padre di Hugo), in un mondo però in cui gli orfani vengono lasciati troppo soli se non hanno più nessuno che si occupa di loro, e anche gli uomini, sul cui capo si affaccia il lato oscuro di un progresso al tempo stesso agognato e temuto (ben simboleggiato dal treno onnipresente), portano i segni tangibili fatti di schegge e menomazioni nelle gambe e devono ricorrere a marchingegni cigolanti per sorreggere ginocchia e busti sofferenti.
La cinefilia è anche solitudine a volte (la memoria corre spontanea a Spielberg che è stato capace con analogo impatto empatico, a dar vita allo sguardo degli extraterrestri con E.T.o a far apparire innaturali gli esseri umani in A.I. – Intelligenza artificiale) e spesso(ce lo ricorda ancora Roy Menarini) nasce proprio dal trauma dell’abbandono… ma in compenso, come per l’esperienza dei “giovani turchi” in Francia, può creare persino nuove famiglie e aggregazioni e donare attraverso di queste la salvezza. E allora come non considerare giusta anche la sua successiva osservazione che tende a individuare un’altra possibile connessione “cinefila” del film, rintracciabile nel parallelo a suo avviso tutt’altro che campato in aria, fra l’adozione di Hugo da parte di Méliès (nella vicenda narrata da Selznick e Scorsese) e quella avvenuta nel reale da parte di Bazin nei confronti del giovane Truffaut, o quella altrettanto stimolante (anche se un po’ più azzardata) di ghezzi che legge la figura dell’ispettore ferroviario come quella dell’uomo che sta dando la caccia a un… enfant savage.
Ovviamente non è però ancorandosi solo a queste due considerazioni un po’ paradossali che si chiude il cerchio del citazionismo, poichè ci ritroviamo dentro ancora una fioraia di ascendenza chapliniana (per altro assente nel romanzo), e l’ombra più “certa” e concreta di Harold Lloyd che si aggrappa alle lancette di un enorme orologio nel film che il ragazzo va a vedere con la sua amica Isabelle (Preferisco l’ascensore di Fred C. Newmeyer e Sam Taylor del 1923), esattamente come farà poi anche il nostro Hugo che tenta di trovare anche nei sogni delle risposte alle domande che stanno assillando la sua infanzia fin dalla morte del padre.
Del resto come sarebbe possibile mantenere così a lungo insieme e correlati fra loro, il genio artigianale del creatore del Viaggio nella Luna e la meraviglia high-tech del 3D se non ribadendo costantemente come fa Scorsese, che “il trucco” (se così lo si suol definire) non cambia, come rimane invariato anche il “modus operandi”, poiché entrambi sono il frutto (il risultato) della stessa, identica illusione che sembra perpetuarsi nel tempo (una specie di dialogo tra la realtà e la sua percezione che il regista riesce a controllare attraverso il filtro del sogno) e dove anche la fascinazione - potente – non varia, visto che riusciamo a stupirci in ugual misura e corrispondente trasporto, sia delle creazioni del pompiere francese che dell’ambientazione digitalizzata della pellicola.
Sarebbe probabilmente poco più di uno sterile esercizio allora anche il provare a decrittare - elencandoli pedissequamente – i tanti momenti di straordinaria presa emotiva che ci vengono offerti, ma non è assolutamente possibile evitare di ricordare per lo meno quelli in cui viene fatto rivivere nel film il teatro di posa di Méliès costruito interamente con pareti di vetro per consentire alla luce illuminarlo all’interno durante le riprese, l’organizzazione del lavoro e le immagini del Viaggio nella lunarese tridimensionali. Le sequenze più straordinarie sono comunque per me quelle in cui il ragazzino contempla la strana macchina ereditata dal padre, un robot a cuore aperto, dai meccanismi visibili e l’occhio vuoto ma che a tratti sembra animarsi con uno sguardo inquietante che sembra racchiude tutto l’incerto futuro del cinema e del secolo di cui è l’espressione più certa, e che conferisce una particolare potenza espressiva a tutti quei segmenti che racchiudono appunto il fascino sublime di una macchina cui spetta qui il compito di parlare direttamente al cuore dello spettatore.
Mi sono già dilungato anche troppo a parlare di quelli che sono i principali temi cari a Scorsese (il rapporto padre/figlio e quello parallelo fra l’uomo e il progresso, il significato della nostra esistenza, l’importanza del tempo e il suo trascorrere) tutti già presenti nell’incipit , ma che accompagneranno lo spettatore per tutta la durata del film. Per lo meno sul tema del tempo però (espresso visivamente dall’onnipresenza dell’impressionante mole di orologi che con i loro ingranaggi affollano tutta la narrazione), penso che sia necessario spendere ancora qualche parola.
Il tempo e il suo trascorrere dunque, e soprattutto quel suo passare incessante, qui analizzato non solo dal particolare punto di vista del protagonista, ma evidenziato e trattato in maniera esemplare in virtù di un “sonoro” che lo rende tangibile proprio attraverso il continuo e crescente ticchettio delle lancette che girano (una specie di colonna sonora a suo modo diegetica) così sapientemente dosato e rimato da non creare però alcun disturbo per “eccedenza invasiva” all’orecchio dello spettatore, e che diventa al contrario, un sottile “godimento” sensoriale.
Parigi, negli anni successivi alla fine deal Grande Guerra che si collocano dunque fra il 1920 e il 1930.
Hugo Cabret è un ragazzino già orfano di madre che si troverà precocemente anche senza un padre poiché l’uomo morirà nell’incendio del museo dove prestava la sua opera lavorativa.
L’unico ricordo tangibile che gli resta dell’amato genitore, è un automa scrivano danneggiato e fuori uso che il ragazzo tenta di riparare.
Trasferitosi da uno zio ubriacone in un tugurio ricavato tra i corridoi di servizio della stazione ferroviaria di Montparnasse dove l’uomo ha l’incarico di prendersi cura degli orologi, Hugo porta con sé l’automa.
Quando lo zio scompare misteriosamente, Hugo non lascia la stazione, ma continua ad occuparsi del buon funzionamento degli orologi in attesa di un possibile ritorno dell’uomo cercando di schivare il poliziotto che controlla la stazione e il suo terribile dobermann, per non essere portato in orfanotrofio.
Hugo è costretto a vivere di espedienti, e di tanto ruba anche dei giocattoli in un negozio della stazione per ricavarne i pezzi che crede necessari per riparare l’automa che ritiene abbia un messaggio del padre per lui e che soltanto se riuscirà a ridargli il movimento, sarà in grado di acquisire.
Il proprietario del negozio lo sorprende a rubare e gli confisca il taccuino con i disegni e le istruzioni che gli aveva lasciato il padre. Hugo cerca di convincere l’uomo a rendergli gli appunti del taccuino, ma senza alcun risultato, anzi l’uomo appare molto turbato proprio da quei disegni. In suo aiuto arriva Isabelle, la figlioccia del giocattolaio (che in effetti è un disilluso Méliès) e i due si trovano così a vivere una storia meravigliosa che rivela ai nostri occhi alcune delle pagine tra le più dolorose e affascinanti della Storia del Cinema…
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