Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
Si stenta inizialmente a rintracciare la firma di Scorsese in Hugo Cabret, prima incursione del regista nella terza dimensione a supporto di una trama da favola triste più consona a certo Spielberg e, soprattutto, a Tim Burton, continuamente evocato dal cast (Johnny Depp alla produzione, Christopher Lee e Sasha Baron-Cohen tra gli interpreti) e dall’abuso scenografico di un’ambientazione che diventa narrazione. Il sottofondo realistico, costante del cinema dell’italo-americano, si perde completamente in una Parigi delle Avanguardie, prudentemente lasciate fuori campo, trasferita tutta nella geografia onnicomprensiva di una sua stazione ferroviaria, con l’aggiunta di alcune cupe vie cittadine e di un interno basso borghese.
A dispetto dei protagonisti bambini, Hugo Cabret è un film volutamente conservatore, violentemente passatista, decisamente nostalgico. Il bello è per tutti già stato, finito e quasi dimenticato, mentre il presente è solo la meccanica ripetizione di una routine che cerca di celare l’infelicità: le famiglie si sono estinte, la levità è svanita e resta residuale solo nei sogni, nelle illusioni di un possibile irrealizzabile. La favola si fa, così, fabula per necessità, pura narrazione nell’esibizione dei suoi meccanismi, ultimo rifugio di quell’illusione che si inventa il gioco e l’avventura nel quotidiano, nella distrazione della sua banalità, nell’avventura della lettura e dell’osservazione. Così come dell’illusione cinematografica che proprio il 3D, con la proiezione in digitale, rinvigorisce e al contempo nega, potenziandone la qualità onirica tanto da cancellare la realtà residua. I tuffi in prospettiva, la funambolica libertà della macchina da presa tipicamente scorsesiana si decuplica ormai nella modifica numerica, creando spazi e movimenti impossibili, costruendo la geometria fantastica di un microcosmo che diventa percettibile.
Hugo vive dentro la stazione regolando orologi, permettendo loro si segnare con precisione un tempo che per lui si è fermato con la morte del padre, assiste in disparte alle vignette animate dei frequentatori dello scalo, cercando di sfuggire al guardiano che lo porterebbe in orfanotrofio e ad un crudele principio di realtà. È un universo grottesco all’Amélie Poulain che pervade la Gare Montparnasse, con la sua francesità esibita, mitigata però da elementi dickensiani (i bambini sono tutti orfani e vivono di espedienti) in perenne bilico tra sogno e incubo. E l’onirismo pervasivo del film, accentuato dall’uso della stereoscopia, si potenzia ulteriormente con l’introduzione del misterioso automa, fatto di ingranaggi ad orologeria e cinematografici (la croce di Malta), silenzioso robot senza A.I. che può scrivere il suo ignoto messaggio se correttamente riparato. Hugo Cabret è un film fatto di riparazioni, di medicazioni e di rammendi, di lenimenti e di conforti che ricostruisce famiglie per affinità elettive, che rievoca il passato per passione condivisa, che cancella il presente per riecheggiare la defunta felicità e rievocarla in una seduta spiritica che si fa spettacolo, puro illusionismo ad immagine e somiglianza del suo nume tutelare, Georges Méliès. Perché il film torna al cinema, la sua modernità tecnologica diventa veicolo ed espressione di volontà nostalgica nella rievocazione del cinema fantastico degli esordi, rivisto ora nelle tre dimensioni che ricostruiscono, filologicamente, l’evidenza fisica dell’entrata del treno nella stazione dei fratelli Lumière, poi tradotto addirittura in scena effettiva nell’incubo del film.
L’ultimo film di Scorsese è una favola amara che omaggia, prima che tutto del tutto svanisca, il cinema com’era mentre si mostra come ora è, celebrandosi: in forma narrativa il regista continua il suo perenne saluto alla Settima Arte, iniziato in articolati viaggi nel cinema americano e italiano, a continua attestazione del proprio amore e debito di cinéphile diventato regista perché ha trovato una passione più totalizzante di quella religiosa a cui era avviato. Nella vastità della finzione, nell’evidenza dell’artificio, nell’espressione metaforica della favola e della sua manifestazione onirica, Scorsese raggiunge un grado di sentita sincerità che mancava alle sue più recenti espressioni filmiche, come in quel cuore dorato che carica e anima, per esigenza ed evidenza di poesia, l’inerzia meccanica e fredda dell’automa.
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