Regia di Semih Kaplanoglu vedi scheda film
Yusuf Koksal (Nejat Isler) è un poeta che vive da molti anni ad Istanbul dove gestisce un negozio di libri usati. La vita scorre tranquilla come sempre, quando riceve la notizia della morte della madre che non vedeva da un po' di anni. Così Yusuf si mette in viaggio per Tira, la sua città natale. Qui ha giusto il tempo di salutare la madre prima di essere sepolta e di rivedere dopo molto tempo amici e parenti. Tra questi c’è Ayla (Saadet Isil Aksoy), una lontana cugina che negli ultimi cinque anni si è preso amorevolmente cura della defunta signora, rimandando a poi la sua aspirazione di iscriversi all’Università. Ayla rivela a Yusuf che la madre aveva fatto il voto di sacrificare un ariete al santuario della piccola cittadina di Golkuk, e che nel caso fosse morta prima del tempo sarebbe dovuto essere il figlio ad esaudire questo suo ultimo desiderio. Yusuf è all’inizio molto diffidente sulla bontà della cosa, ma il ritorno nei luoghi nativi, l’onda dei ricordi che lo invade, lo convincono che la cosa migliore da fare è compiere per onore della madre questa sorta di rito sacrificale.
“Yumurta” del regista turco Semih Kaplanoglu è il primo film di una trilogia (che comprende “Sut” e “Bal”) incentrata sulla figura di Yusuf Koksal, un poeta di successo che da qui inizia una sorta di viaggio a ritroso che lo condurrà fino agli anni della prima infanzia. “Yumurta” è un film denso come la storia della Turchia, ricco di sfumature culturali che si palesano poco alla volta, con calcolata lentezza e volontaria incisività. Kaplanoglu arriva dove vuole arrivare, districandosi con la macchina da presa tra i tentacoli multiformi di un paese complesso, costruendo una storia che nella limpida semplicità che la contraddistingue disegna traiettorie speculative abilmente confezionate. La messinscena investe molto sulla ricercata pace dei sensi, privilegiando la calma placida che emerge dall’ambientazione “naturalistica” ai tumulti dell’animo sottintesi dallo sviluppo narrativo. Yumurta significa uovo e la parola uovo rimanda, nello stesso tempo, sia a qualcosa che da esso trae origine, sia alla cosa da cui l’uovo stesso ha tratto origine. Un movimento circolare che impone sempre il ritorno al punto di partenza, dal luogo in cui tutto ha avuto inizio e dove ogni cosa deve trovare il suo adeguato compendio. Detto altrimenti, l’uovo in sé può rappresentare, sia l’inizio di una vita che la fine di un determinato processo evolutivo. Dipende dalla prospettiva che si adotta per rapportarsi con questo intrigante dilemma. Per poi accorgersi che non è tanto importante risolverlo, che entrambe le cose rappresentano necessariamente due facce di una stessa medaglia, che possono significare la stessa cosa se riferite ai resoconti di una vita la cui origine si vuole di natura trascendente. Kaplanoglu usa questo elemento simbolico per fare un film dal chiaro sapore etnografico, sull’uomo messo in relazione allo spazio vitale che circonda la sua esistenza, e su un paese che trova sempre il modo di condizionarla ed indirizzarla. A fare da cornice “elegiaca” è un senso del sacro che emerge con una forza davvero prorompente, presente nel modo in cui le persone si relazionano tra di loro, nel rapporto che hanno in vita con la morte, nel lavoro manuale che non cambia mai, nelle case diroccate che conservano una loro dignità, nelle campagne eternamente fertili, nei doni offerti dalla natura. Per una forma di religiosità che vuole il suo Dio ma che può anche prescindere dall’averne uno, perché è nelle cose ed esiste per le cose, inserita nel disegno sociale come un fatto indiscutibile. Una religione dell’esistente che non intacca minimamente la laicità della storia, incentrata sulla figura meditabonda di un Poeta, che dalle viscere della sua coscienza “illuminata” sente l’eco della madre defunta che lo esorta a confrontarsi con le memorie della sua famiglia. Inizia per questo un cammino a ritroso che lo condurrà fino alle origini della sua identità culturale e della sua dimensione di uomo. L’intellettuale urbanizzato rincontra le sue radici contadine, il Poeta di successo ritorna a far pratica con la fonte primaria della sua ispirazione. Si avvia verso questo lungo viaggio mentale come chi vuole scoprirne tutto il fascino nascosto, abbandonandosi silente alla ricerca, lasciandosi trasportare dai sussulti del cuore. La riluttanza derivante dalla sua emancipazione intellettuale cede il passo alla consapevolezza latente che nulla e nessuno può ricacciare indietro le voci delle sue origini. Di questa presa di coscienza è artefice anche la bella Ayla, la custode ultima di un rituale salvifico che chiede solo di essere esaudito, ne vale il rispetto da decretare alla morte e l’onore innalzato agli altari di una famiglia. Ayla è stata vicino alla madre di Yusuf nei suoi ultimi cinque anni di vita. Ora è pronta ad andarsene a Istanbul ed iscriversi all’università, non prima però di aver accompagnato l’uomo fino all’adempimento del suo dovere di figlio, in una sorta di passaggio di consegna che deve lasciare Yusuf a continuare da solo il suo personale cammino. Lei deve aspettare che tutto si compia prima di poter iniziare il suo nuovo percorso di vita. Lui deve cominciare il suo cammino a ritroso se vuole che sia vivifica la conclusione della sua ricognizione esistenziale. Ecco ancora il rapporto speculare tra un inizio e una fine, tra una cosa che sta per essere e un’altra che già è stata, che nelle intenzioni di Semih Kaplanoglu (a mio avviso) significano la stessa cosa se guardate con l’occhio vigile della memoria storica che forma e sviluppa l’identità culturale di un popolo. Ottimo film.
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