Regia di Paul Weitz vedi scheda film
Jonathan Flynn scriveva. O meglio, aveva una penna e non aveva una vita normale. Perché gli bastava sentirsi diverso per sentirsi vivo. La sua vittoria sulla banalità inizia con una deriva: la perdita della sua licenza di tassista, lo sfratto dall’appartamento, l’alcolismo, l’esistenza da vagabondo, sopra una terra gelida e sotto un cielo in cui sono impressi i suoi miraggi di gloria. Quel capolavoro che dice di portarsi dentro cresce innaffiato dalla sua rabbia bagnata di vodka, neve e sputi. Ed è troppo ribelle per lasciarsi posare sulla carta. Sullo sfondo di una New York invisibile, si aggira una figura orgogliosa del proprio incubo senza nome, che si inventa titoli impossibili – The Button Man, The Confessions of Christopher Cobb – per dare un’identità ad una poesia nuda, che urla con la supponente pretesa di rimanere inascoltata. Un genio incompreso troppo conscio della propria grandezza per aspettare di essere accolto come tale dalla gente comune. Un individuo che vuole essere assente, fuori da un corpo che manifesta necessità materiali e da un’anima troppo sensibile alle emozioni. Vorrebbe spogliarsi davvero di tutto, per diventare puro talento, senza fame, né sete, né sonno. E, soprattutto, desidererebbe scrollarsi di dosso quella corazza coriacea in cui è costretto ad andare in giro, e che è la miserevole maschera di un povero vecchio pazzo. Il volto di Robert De Niro dà forma a quella prigione grigia e rugosa, che si guarda allo specchio e non si riconosce, perché è convinta di racchiudere un meraviglioso tesoro. Quell’uomo non è solo un clochard ubriacone, che quando beve delira. È un dramma intrappolato in un convenzionale emblema della miseria, impossibilitato ad esprimersi con la nobile voce dell’immaginazione letteraria. È un uomo che possiede qualcosa di prezioso, che però non riesce a dare. Questa condizione lo definisce anche come padre mancato, che ha abbandonato il figlio, e quando, dove molto tempo, lo ritrova, cerca disperatamente di fare di lui l’erede universale dei suoi sogni irrealizzati. Nicholas ha perso, all’età di ventidue anni, una madre troppo impegnata a lavorare e ad accudirlo per poterlo aiutare a diventare se stesso. Così Nick non sa chi lui sia, perché da nessuno ha potuto impararlo. Senza mestiere, né amore, né ambizioni, finisce per farsi assumere come assistente in un ricovero per senzatetto: un luogo pieno di storie, di materiale umano, che gli parla della vita vera e che forse gli può ispirare qualche frase da annotare sul suo taccuino di aspirante scrittore. Anche lui, come Jonathan, ha il vizio di fermare l’attimo, anche il più insignificante, per (sovrac)caricarlo di suggestioni fantastiche, di insoliti giri di parole che sono solo la proiezione della sua personale, sofferta partecipazione alla tragedia di essere soli, inadeguati, privi di un posto dove stare. L’emarginazione è l’effetto dell’incoerenza, che distrugge ogni sicurezza e ci rende raminghi, in un labirinto di manie e di occasioni sfumate. Questo film, come il libro autobiografico da cui è tratto, è il diario di un momento in cui la confusione è diventata veicolo di una inattesa rivelazione. Per Jonathan e Nick, la distanza, la diffidenza e l’ostilità si sono trasformate in un modo per fare conoscenza, per tastare, a suon di rifiuti e malintesi, il terreno, per loro inesplorato, del classico rapporto tra un genitore che ha qualcosa di importante da dire ed un figlio che non ha nessuna voglia di ascoltarlo. Due esseri bizzarri ed infelici si scoprono parte della stessa follia, rimodulata sulle differenze determinate dal salto generazionale. Sono le due versioni del Being Flynn, che punta verso la medesima utopia di una realtà raccontata standoci dentro, ma illudendosi di poterne rimanere immuni. Il film di Paul Weitz, ispirato all’opera Another Bullshit Night in Suck City (Un’altra notte di cazzate in questo schifo di città) di Nick Flynn, è impregnato dell’acre odore della strada e del metallico sapore della frustrazione, dell’odio per se stessi, e, soprattutto, della volgare accusa di inutilità con cui il mondo umilia chi sceglie l’astrazione come modus vivendi. Ed è la frammentaria cronaca di uno sbando che porta due cammini zigzaganti ad incrociarsi, per provare il gusto di smarrirsi insieme.
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