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Il mucchio selvaggio

Regia di Sam Peckinpah vedi scheda film

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La recensione su Il mucchio selvaggio

di Peppe Comune
10 stelle

Pike (William Holden) è il capo di una banda di fuorilegge ricercata in tutto il west. Dopo una rapina in banca sfociata in una carneficina che ha visto coinvolti molti cittadini innocenti, della banda sono rimasti solo in sei : oltre a Pike, Dutch (Ernest Borgnine), il messicano Angel (Jaime Sanchez), i fratelli Gorch, Lyle (Warren Oates) e Tector (Ben Johnson) e il vecchio Sykes (Edmond O’Brien), che si occupa escluusivamente di tenere a bada i cavalli. A dargli la caccia sono in tanti, soprattutto un manipolo di furfanti assoldati dalla compagnia delle ferrovie capeggiati da Thorton (Robert Ryan), un vecchio amico di Pike costretto a passare col “nemico” per evitare di rimanere in galera. Sempre in fuga e sempre in cerca di nuovi colpi da mettere a segno, la banda arriva in Messico, fino ad Aguaverde, il villaggio di Angel, tra gente povera assetata di riscatto e in mezzo ai fuochi dei ribelli in rivolta. Qui conoscono il Mapache (Emilio Fernandez), un esaltato che si è fatto nominare “generalissimo” e che si è messo alla testa dell’esercito regolare per combattare i rivoluzionari capeggiati da Pancho Villa. Il Mapache assolda la banda perché vuole che rubino all’esercito americano le armi necessarie per vincere la loro guerra. Pike e i suoi accettano di buon grado, ma in quel mondo i tragici imprevisti sono come l’ombra che non si estingue mai.

 

scena

Il mucchio selvaggio (1969): scena

 

Il cinema americano ha fatto del genere Western uno dei capisaldi della sua gloriosa produzione. L’epopea del “selvaggio” west, la scoperta di territori inesplorati e ricchi di risorse, lo spirito pioneristico della frontiera, hanno rappresentato il quadro prediletto per raccontare le origini della giovane storia di un paese in ascesa prepotente e per rinvenirvi le tracce fondative del suo carattere nazionale. Molti grandi autori si sono cimentati con la storia degli Usa attraverso i caratteri del western, chi presupponendo nello scontro manicheo la presenza necessaria di un opera “civilizzatrice” e chi facendo delle immense praterie il campo di battaglia di guerre senza eroi, chi accentuando l’aspetto mitico dell’epopea western e chi ammantando il tutto con tonalità marcatamente crepuscolari. Sam Peckimpah è quello che più di ogni altro ha inteso rappresentare attraverso il genere la natura spiccatamente illusoria del sogno americano. Di questa poetica intrisa di cupo pessimismo e di un "feroce" maleddettismo anarchico, “Il mucchio selvaggio” occupa un posto di assoluto rilievo. Non a caso, viene generalmente considerato come il punto di non ritorno del “western classico” e l’inizio di una rilettura del genere che serve, come nella sua migliore tradizione, non solo a scorgervi la storia nel suo divenire, ma anche a legare quella storia, i caratteri che l’hanno permeata nel profondo e la dinamiche del potere che l’hanno indirizzata, al contingente. Come ha scritto giustamente Aides nella sua bellissima recensione, “Il mucchio selvaggio” (e l’intera poetica di Sam Peckimpah naturalmente) segna “l’approdo fisiologico di un corpus mitopoietico cinematografico ed extra, celebrativo dell’ascesa di una nazione e divenuto specchio delle sue contraddizioni storico-culturali”. Il west è un territorio dai confini molto labili, la vita e la morte vi combattono la loro particolare battaglia per la sopravvivenza, l’unica legge che conta è quella del più forte e la sola regola riconosciuta è quella di guardarsi sempre alle spalle. Sam Peckimpah accentua ulteriormente questi aspetti attraverso una poetica del disincanto che si serve dell’estetica della violenza cruda ed eversiva per oltrepassare il genere e la storia e minare dalle fondamenta la presunta perfettibilità di un sistema paese ubriacato di tante pie illusioni. Credo che"nel genere" Sam Peckinpah abbia fatto due capolavori assoluti, “La ballata di Cable Hauge” e “Il mucchio selvaggio”, e credo che questi due film siano due facce della stessa medaglia, entrambi attraversati da una linea di sottile nostalgia per una tipologia dell’umano ancora capace di far corrispondere la propria vita alla fierezza di una parola data o alla lealtà di un’amicizia adulta, ed entrambi pervasi dai segni incipienti del cambiamento in fieri. Se Cable Hauge rappresenta lo spirito pioneristico messo alla porta dal capitalismo in rampa di lancio, è lo spirito ribelle dei rivoluzionari messicani che accompagna la fuga della banda oltre le frontiere della “madrepatria” ad offrire agli uomini di Pike, insieme ad un diverso modo di concepire la propria morte, la consapevolezza latente che con loro finirà un intero mondo. Pike e i suoi uomini pensano solo all’oro da intascare e a come fare a schivare le pallottole, l’ultimo dei loro pensieri è quello di preoccuparsi del riscatto di un intero popolo aiutando la causa rivoluzionaria. Tuttavia, sullo sfondo del loro perenne girare intorno al destino che li attende, c’è un popolo di miserabili che ha investito tutte le possibilità di riscatto nella speranza di una rivoluzione e loro, di fronte all’arrogante protervia del Mapache e al coraggio di poveri in armi, capiscono che non tutte le morti sono uguali, che alla crudele lotta dell’uomo contro l’uomo si può opporre il tentativo estremo di non rendere totalmente vano il sacrificio della propria vita. La banda conosce il valore etico della lotta contro i reggitori della storia : la scoperta di una sconfitta annunciata, uno spiraglio di luce che non riesce a penetrare i vecchi e i nuovi egoismi. ll massacro finale è li a mostrarci la voce muta di una speranza che nasce morta, un’allegoria visionaria che sublima gli attimi della tragedia nella ferocia di occhi insanguinati, una danza macabra senza esclusioni di colpi e senza il perdono di un solo brandello di carne. La morte al rallentatore di giganti nani.

 

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