Regia di Sam Peckinpah vedi scheda film
Parlare di quest’opera chiave del cinema americano (e non solo) presuppone riferimenti d’obbligo al genere in cui si inscrive, dato che essa ne trascende i confini a dir la verità tutt’altro che limitati, ma ampliatisi nel corso dei decenni sotto l’influsso di contaminazioni, stili, e poetiche varie. Il Mucchio Selvaggio non è il primo titolo che “ripensa” il western, ma forse è quello che più denota una forza autonoma, un carattere marcato che stabilisce un distacco formale e sostanziale dalla tradizione, per farsi allegorico oltre il genere e il cinema.
Impossibile non percepire la tensione conflittuale che lo anima, che lo spiega e scuote in modo riflessivo e cruento, l’inquietudine formale e morale di un film e di un regista eufemisticamente crepuscolari. Se Peckinpah è una figura contestatrice, problematica e anarchica, inscritta in quel cinema americano a cui ha donato nuova linfa espressiva delineando una visione cupa e amara della realtà, Il Mucchio Selvaggio appare immediatamente come un’opera inserita in un contesto (classicismo e western) esclusivamente per sabotarlo, metterlo in discussione, minarlo alle fondamenta tradizionaliste e “americaniste”. Film antimitologico e antiideologico, nella misura in cui rompe definitivamente i canoni e le semplificazioni delle narrazioni legate alla storia del west, estraneo allo scontro civiltà-barbarie come tema fondamentale di una cultura che con le sue rappresentazioni artistico-popolari ha scolpito l’idea dell’espansionismo statunitense quale segno e fattore di progresso, è la storia di una fuga di banditi nel cuore della Rivoluzione messicana, premessa a un gesto di ribellione radicale, del cinema dinanzi ai falsi miti della “civiltà”, nel cinema (classico) ripensato circa le sue connotazioni estetiche e culturali.
I gringos protagonisti che affermano di “condividere ben pochi sentimenti” del proprio governo, si muovono in pieno conflitto con forme “evolute” o primitive di potere (la nazione coi suoi bounty killers, e sullo sfondo, il nuovo, galoppante potere capitalistico, il “generale” Mapachi e i suoi aficionados). Il regista sta dalla loro parte, e di quella dei rivoltosi, ma con rigore e senza manicheismi, tracciando un quadro di cruda complessità. I banditi cercano l’oro, non il riscatto dei popoli, eppure si auspicano la vittoria della “povera gente” al giogo della “feccia” pseudo militare. Ancora umani, ma induriti e resi cinici da una barbarie non delimitata da frontiere, sono ambigui, spietati, in contrasto con una società (e le sue leggi) in rapido mutamento, e dunque carnefici e vittime destinati alla sconfitta. Sopravvivenza e volontà di potenza definiscono le direttrici di un’apocalisse, gli uomini, eroici e abietti, si dibattono come formiche e aracnidi nel fuoco della rovina.
La mitologia fordiana è lontana, il wild west è ora lo scenario di una realtà corrotta in pieno disfacimento, di una presenza civile da poco storicizzata e già decadente, metafora delle crisi che agitano l’America odierna, e del destino umano votato al fallimento e alla morte. Il western ha smarrito la sua solarità e il suo credo morale e sociale. E’ il luogo delle ombre emerse nella storia di un Paese che allo stesso modo ha perduto la sua innocenza, in un genere alla sua fase “autunnale” che non solo ne cantava i valori, ma ne incarnava orgogliosamente l’identità. Rappresentazione del west e vita del west avevano da sempre conosciuto una concreta simbiosi, ora l’epopea comune di realtà e racconto subisce in questo film, a livello temporale e morale, la sua estrema scissione.
Peckinpah, più di S.Leone -il cui talento e senso dello spettacolo è alla base di un manierismo poetico in fondo scevro da implicazioni morali e storiche- è dunque l’approdo fisiologico di un corpus mitopoietico cinematografico ed extra, celebrativo dell’ascesa di una nazione e divenuto specchio delle sue contraddizioni storico-culturali. Dopo i segnali di destrutturazione o revisionismo difatti già presenti in altre pellicole di rilievo del western americano (Mezzogiorno di Fuoco, L’Amante Indiana, Sentieri Selvaggi, La Tortura della Freccia, tra gli altri), si assiste al più radicale accantonamento degli elementi seminali di una cultura (o forse “subcultura”), dalla conquista alla frontiera, dalla figura del pioniere alla “purezza eroica”, dal mito del paesaggio e della wilderness alla sfida alla natura e ai selvaggi, per tracciare uno scenario in cui ogni parzialità e monumentalizzazione sono irredimibilmente sepolti. Peckinpah si serve del genere per dire altro, lo sconvolgimento che egli attua nel cinema rispecchia quello fuori del cinema, ossia della storia, del presente.
Sul piano formale, la chiarezza espositiva e il tocco armonioso che ordivano la regia invisibile dei vecchi classici lascia il posto a soluzioni spesso marcate, rivelatrici di quelle componenti conflittuali che agitano la realtà e la poetica del regista. Iperboli e i parossismi sono gesti mai fini a se stessi, al contrario, estremamente significativi, tanto istintivi quanto lucidi e razionali. L’antinomia linguistica più evidente è quella che si crea tra il ralenty e il montaggio veloce, opposizione apparente derivante da una comune esigenza espressiva che trasforma indignazione e amarezza in violenza formale. I numerosi rallentamenti amplificano la morte, sono zoom temporali che incidono sulla percezione di ciò che si vede, dilatando e avvicinando l’efferatezza e la brutalità. Tuttavia, nei momenti più concitati si susseguono fugaci e quasi impercettibili, spesso alternati a zoom veri e propri e a riprese da punti di vista stranianti (con la mdp spesso dentro l’azione), conferendo grande dinamismo ritmico al montaggio e disorientamento nello spettatore. La rapidità della messa in serie delle inquadrature catapulta lo sguardo direttamente nell’esito inevitabile dei conflitti e del destino umani: il massacro. Le carneficine di The Wild Bunch sono deflagrazioni appiccate da un nero pessimismo, i corpi si affastellano butterati e copiosi di sangue sulla scia di inquadrature caotiche, dense di cupa follia. Come ad obbedire, d’un tratto, a un impulso incontenibile. Il duello, vera e propria cellula drammatica che ristabiliva ordine ed equilibrio nei racconti tradizionali, si è disgregato in un ammasso di metastasi nefaste.
Non mancano spiragli di luce, l’amicizia è il collante della storia (insieme all’oro e al dipanarsi della fuga/inseguimento) e i momenti del sentimento virile e unitario sono tutti degni di nota. Anch’essa tuttavia è venata di ambiguità e precarietà. E’ un destino tragico, romantico e in fondo nichilista. Nostalgia di un autore verso una purezza perduta nei deserti aridi della competizione, della primitiva lotta territoriale, e dell’estinzione.
Ne Il Mucchio Selvaggio si respira questa “malinconia viva”, suggerita da connubi perfetti, tra i toni caldi e crepuscolari di una fotografia carica, pastosa, quasi iperrealista e ambientazioni diroccate, aride e assolate, una colonna sonora a tratti convenzionale (ma spesso di felice impronta tradizional-popolare) e una solida sceneggiatura attenta ai gesti umani come alle inevitabili crudeltà. Su tutto rimane, in definitiva, la forza ora pacata ora dirompente della narrazione, sostenuta da quella tensione espressiva che è il vero valore aggiunto, salvifico di tanto cinema americano “post-classico”.
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