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La musica che non ti ho detto

Regia di Jim Kohlberg vedi scheda film

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La recensione su La musica che non ti ho detto

di OGM
8 stelle

La musica come terapia. Che vince la malattia, ed anche l’oblio. Nel 1986, Henry Sawyer rivede, dopo vent’anni, il figlio ribelle che, da ragazzo, aveva lasciato la casa paterna. Gabriel, a quell’età, era un chitarrista capellone che amava i Grateful Dead, manifestava contro la guerra del Vietnam e non voleva andare al college. Nel 1986 è un trentacinquenne che, un giorno, chiama la madre dall’ospedale per comunicarle che ha un tumore al cervello, e deve essere sottoposto ad un delicato intervento neurochirurgico. L’operazione lo lascerà privo della memoria a breve termine e dell’orientamento spazio-temporale: un individuo dall’esistenza menomata, incapace di costruirsi, istante dopo istante, un passato su cui basare il futuro, e quindi condannato a vivere costantemente in un fuggevole presente. Solo ascoltando i dischi della sua adolescenza, da All You Need Is Love dei Beatles a Desolation Row di Bob Dylan, la mente di Gabriel si riaccende, la sua parola si rianima, il cuore si apre su una passione che rifiorisce come se egli fosse ancora lì, immerso nell’oceano della contestazione, a rifiutare l’eredità militarista e borghese della società americana, e a progettare di trasferirsi nell’East Village per suonare il rock. Gli elementi di quella cultura hippie che, agli occhi del padre Henry, appariva allora come una diabolica via verso la perdizione, si rivela improvvisamente come un tesoro prodigioso, capace di ridonare luce e dignità a quel figlio che sembrava perso per sempre. Quella spregiudicata scelta di vita che Henry aveva considerato inaccettabile, diventa ora, sorprendentemente, la sola umanamente possibile per Gabriel; in modo ugualmente paradossale, quel terreno minato su cui si era sviluppata la loro incomprensione, si trasforma nell’unico argomento intorno a cui poter comunicare. Il vicolo cieco del rapporto tra padre e figlio e lo spirito di un’epoca irrimediabilmente tramontata vengono così fissati in un’eternità che è l’immutabile icona d’un amore fuori dal tempo, che non può cambiare o fallire perché non è in grado di ricordare, di fare confronti, di coltivare rimpianti o serbare rancore. Questa strana forma d’affetto presenta una perfezione senza speranza, che ogni giorno rinnova, intatta, l’eccitante freschezza del primo incontro, senza però poter costruire nulla. Gabriel non può imparare, e i suoi ideali giovanili non devono quindi fare i conti con il giudizio della storia: per lui non ci possono essere né ripensamento, né delusione, e la sua incapacità di comprendere è compensata dalla felicità di non potersi soffermare sul dolore, e di non conoscere l’irreversibilità del destino, che drammaticamente distrugge i sogni e separa le persone. Mentre, per il vecchio Henry, il declino avanza a passi da gigante, Gabriel permane in un perpetuo attimo fuggente, un giardino dell’Eden in cui il male e la fine sono concetti inesistenti. In The Music Never Stopped la patologia clinica si fa ritmo e poesia: il racconto, scandito dalla ripetitività dell’essere che vive ma non cresce, ci trasporta nella dimensione di un’amnesia illuminata, pervasa da una visione utopica che si solleva dalla realtà senza mai dover atterrare. Spiccare eternamente il volo verso il nulla è un gioco tragico e bellissimo, basato su un’illusione sterile, però indistruttibile, che contagia, col fascino della sua sovrumana incoscienza, anche le anime ancorate al suolo dal peso crescente dei pensieri.

Il film di Jim Kohlberg, produttore cinematografico alla sua prima esperienza da regista, trae spunto da una storia vera, narrata nel saggio The Last Hippie del neurologo inglese Oliver Sacks (già autore del libro Risvegli, su cui è basato l’omonimo film del 1990 diretto da Penny Marshall).

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