Regia di Tim Burton vedi scheda film
Dark Shadows è un omaggio all’omonima serie televisiva di Dan Curtis che ottenne grande successo a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70. Barnabas Collins, arrivato bambino nel Maine da colono inglese, nel 1752 si innamora di una ragazza, Josette ma rifiuta l’amore della strega Angelique (Eva Green) che lo maledice uccidendo i genitori, la promessa sposa e trasformando lui in vampiro. Rinchiuso in una bara e seppellito vivo, Barnabas viene riesumato per sbaglio nel 1972. Ritorna nel vecchio maniero occupato dai suoi derelitti discendenti e ingaggia una nuova guerra con la strega innamorata respinta.
Burton, grande fan della saga, adatta l’immaginario della famiglia di mostri e del suo patriarca Barnabas Collins al suo personale stile dark e al suo mondo grottesco. Un mondo imploso nelle istanze burtoniane più caratteristiche, riconoscibili dal tratto grafico delle ambientazioni e dei personaggi, freak consapevoli di esserlo, portatori della cupa melancolia tipica del gotico romantico ma corrosa sempre da un umorismo acre, surreale.
Dark Shadows è di fatto una soap opera horror che ripropone i temi che hanno fatto la fortuna dell’opera omnia di Burton: la famiglia deforme, vista come un antro di spaventose tensioni, male diffuso e ipocrisia; I figli delusi e abbandonati dai padri; la solitudine e l’emarginazione come tratto distintivo dei personaggi. Vita e morte in costante scambio di ruolo.
Burton è sempre un grande creatore di immagini, la regia morbida incornicia la “bellezza” del bizzarro sontuosamente sorretta dalle ottime scenografie gotiche di Bruno Delbonnel. Stile che ha un tratto distintivo unico, punto di forza e di debolezza insieme. Il film è una nomenclatura delle istanze burtoniane, un patchwork fatto di pezzi come un frankenstein in cui ogni brandello è portatore della memoria che ne ha costruito il mito.
Si riconoscono le forme de La sposa cadavere nel fantasma dell’amata moglie di Barnabas; lo stesso protagonista, Johnny Depp immobilizzato in una tetra mise settecentesca e con il volto biancastro di cerone, non può che riprendere lo stupore di Edward Mani di Forbice nel confronto con l’altrettanto società freak anni ‘70; lo stabilimento ittico sembra un distaccamento della fabbrica di cioccolato; le movenze e la pettinatura della moglie Helena Bonham Carter , sono quelle dell’aliena di Mars Attack!. Non sembrano, sono. In più si registra un aggancio alla tradizione vampiresca del Nosferatu e una velata presa per il culo degli amorazzi intontiti di Twilight, a voler essere proprio pignoli.
Dark Shadows si specchia in un passato visivo senza sfondare il muro del futuro (la visionarietà) che ha contraddistinto l’opera di Burton all’inizio della carriera e per buona parte di essa. E’ divertente ma alterna lunghe pause di ritmo durante le quali la verbosità insistita si rende necessaria per spiegare la storia in corso di svolgimento. L’umorismo è concentrato nella prima parte del film ed è totalmente giocato sulla contrapposizione di due mondi distanti tra loro un paio di secoli, il secondo dei quali, gli anni ‘70 sono per colori, musica e design l’espressione bizzarra di una rivoluzione culturale che stupiva per libertà di forme e contenuti, ma che nel film al di là di qualche feticcio ( l’Allegro Chirurgo; un paio di lampade; una bicicletta con la sella lunga) e di una manciata di capelloni non viene quasi mai esposto. Dopo tutto l’universo burtoniano è sufficiente a se stesso e quindi tutto lo sguardo è riversato all’interno di esso in un buco nero che fagocita idee, stili e forme crogiolandosi nella propria esclusività. Depp è un po’ l’alter ego di Burton che ha un alter ego in Barnabas. Quest’ultimo sopravvive alla propria natura rimanendo uguale a ciò che è sempre stato, così il regista si adegua alla proprio stile e lo rianima a comando. Barnabas alterna una sofferta natura immortale soggiogata dalle tenebre a momenti da guitto, come se il racconto che turbina ossessivamente attorno alla sua figura non sapesse che direzione definitiva prendere: Farsa o racconto gotico? Commedia nera o dramma a tinte stinte?
A nulla vale la sceneggiatura - vera disgrazia che imbriglia il regista in un pastiche eterogeneo di temi - di Seth Grahame-Smith già autore del libro cult-sciocco, Orgoglio pregiudizio e zombi,. Di quella vena dissacrante e iconoclasta non c’è nulla nel film. Qualcosa che invece nel romanzo d’amore/ musical/ splatter, Sweeney Todd – tanto per nominare uno degli ultimi film di Burton - era ben raffigurata dal colore del sangue che leniva i grigiori e le cupezze ipocrite della società vittoriana. Qui latita l’empatia, l’aggressione visiva mitiga i tempi morti ma tutto rimane in superficie senza emozionare più di tanto. Non giova neppure l’eccessiva lunghezza della pellicola, un taglio più secco avrebbe risolto molti problemi. Evidentemente, la difficoltà di rinchiudere un serial dentro la cassa claustrofobica della metrica del film, è stata enorme e castrante.
La necessità di spiegare la trama propone un prologo in voce over che sacrifica i classici, solitamente splendidi titoli di testa, mentre il commento musicale di Danny Elfman e alcune pietre miliari della musica seventeen ( da Barry White ai Black Sabbath) sono forse la cosa migliore del film. Note positive vengono dalla sensuale strega Eva Green, generosamente dotata sia di carisma che di petto mentre i comprimari sono sacrificati in piccole parti da caratteristi. Sprecati forse, Michelle Pfeiffer, Bella Heathcote, Chloe Moretz e Helena Bonham Carter. Sono presenze fantasmatiche che appaiono, forniscono l’assist per la battuta o la situazione e scompaiono senza farsi mai personaggi, mentre il cameo di Alice Cooper nella parte di se stesso se è inutile dal punto di vista narrativo non lo è dal punto di vista dell’immagine. Sembra il fratello in acido di Barnabas.
Un film “bello”, Dark Shadows, bello come il guscio di fragile beltà che imprigiona un cuore marcio di Eva Green, strega innamorata e incapace di amare; bello nel senso superficiale del termine, qualcosa di estremamente curato dal punto di vista estetico tanto da esigere un’anima in pegno, in nome dei bei tempi andati. Piacerà molto a chi conosce poco le prime opere di Tim Burton, piacerà – perché non può non piacere – a chi Burton lo conosce bene ma si farà dimenticare appena fuori dalla sala cinematografica.
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