Regia di Gary Ross vedi scheda film
Se ne è discusso tanto, ovunque, alimentando massicciamente quello che poi si voleva ottenere: creare un enorme caso mediatico, la percezione di un Evento imperdibile. Il film, infatti, ha incassato una montagna di soldi, segno che tutto il movimento d'interesse che lo ha preceduto e poi accompagnato ha funzionato alla grande. Risposta positiva unanime del pubblico, a fronte della quale si registra però una spaccatura della critica. Chi ha parlato di delusione o addirittura di bluff, e dall'altra parte (direi una discreta maggioranza) coloro che hanno plaudito alla novità, ai temi sociali affrontati, al sobrio rigore della messa in scena, al talento della giovane protagonista. Per quanto mi riguarda, sono uscito da questa visione disturbato e irritato, oltre che provato dalla estenuante lunghezza della pellicola. Ho trovato "Hungher games" il frutto di un'operazione meschinamente furba, calcolata commercialmente anche nei dettagli, scritta pensando ad un target d'elezione (vedremo poi quale). Due ore e venti che non passano mai, anche per via di un incedere lento e faticoso. Sembra di assistere ad una prova ad ostacoli, dove non ci sono veri snodi narrativi che non attengano ai meccanismi (automatici e prevedibili) della gara medesima. Il tutto improntato ad un rigore che sconfina nella miseria narrativa, nel continuo reiterare gli stessi meccanismi fino alla noia e allo sfinimento dello spettatore. Ma tutta questa semplicità e questo schematismo hanno una loro ragione, che nasce nelle menti di coloro che hanno scelto di investire su questo prodotto, vale a dire il proposito di fare breccia nel cuore di quello stesso target che già aveva decretato il trionfo globale di "Twillight" e di "Harry Potter", dunque soprattutto un pubblico di adolescenti, si suppone con una prevalenza del sesso femminile. E devo dire che la cosa che più mi infastidisce (a parte il giudizio tecnico su un film che per me è proprio brutto) è il tentativo (non dico subdolo, ma sicuramente antipatico) di permeare e avvolgere un filmetto costruito a misura di cervello di adolescente, con un insopportabile alone da "prodotto indipendente". E non è infatti un caso se nella soundtrack si leggono nomi come Arcade Fire e Decembrists, cioè due dei gruppi più seguiti dal pubblico giovanile che frequenta l'indie rock. Non è la prima volta che viene portata sullo schermo una vicenda in cui si parla di un popolo che si riduce a sfidarsi per la sopravvivenza, ma stavolta a peggiorare le cose c'è una struttura narrativa rigida a cui si aggiungono una messa in scena e una sceneggiatura entrambe poverissime di idee, forse troppo attente -come dicevo- a non disorientare gli schemi mentali di un pubblico di giovanissimi. Forse fa sentire il suo peso anche la regìa di un onesto mestierante come Gary Ross, cineasta dotato di personalità non proprio incisiva. Il resto lo fa un cast come minimo discutibile. Cominciando dalla protagonista indiscussa, la rivelazione Jennifer Lawrence che -lo dico subito- non ho visto nel suo precedente "Un gelido inverno". Di lei si sono scritti sfracelli, è stata osannata oltre ogni limite. Io, consapevole che ora verrò lapidato da chiunque, devo dire che non ne sono rimasto entusiasta più di tanto. Certamente è una ragazza stupenda, solo un folle potrebbe mettere in discussione cotanta bellezza. Il problema è che la sua interpretazione è troppo "legata", e forse questa sua tendenza alla rigidità ne riduce la forza espressiva, ne limita lo slancio emotivo, ne rende la recitazione piuttosto "trattenuta". Ciò detto, non mi sogno certo di negare che la ragazza "buca" il grande schermo per tutte le due ore e venti. Suo partner nel film è Josh Hutcherson, un attore che non mi riesce di prendere sul serio, e ne spiego subito il motivo. Io l'ho visto per anni interpretare ruoli da teen ager (quale lui in effetti era) in pellicole per bambini in stile Walt Disney. Ebbene, rivederlo ora -cresciutello- a fare le gare di sopravvivenza, scusate ma mi fa sorridere. Elizabeth Banks è resa totalmente irriconoscibile da un trucco pazzesco, ma non si va oltre la sua ostentata eccentricità. Lenny Kravitz è fighissimo, peccato che il suo ruolo sia scritto senza alcun interesse, appena tratteggiato. Toby Jones lo si intravede ogni tanto, e non si è capito bene cosa ci stia a fare. Donald Sutherland e Stanley Tucci condividono una triste caratteristica di questo film: entrambi due mostri del cinema, vengono qui totalmente sprecati, penalizzati da due ruoli appena accennati che prima incuriosiscono lo spettatore per poi lasciarlo insoddisfatto. E se questo non è un problema per un Wes Bentley che non è mai stato una cima, i guai sorgono invece con Woody Harrelson, forse il personaggio più interessante del film: dannato, ambiguo, sfuggente, contradditorio...ma poi anche su di lui cade la scure di una sceneggiatura che pare tesa ad "oscurare" tutto ciò che possa far troppo distrarre lo spettatore, al fine di mantenerlo concentrato sulle infinite corse e camminate della Lawrence. Da sottolineare la povertà dei dialoghi, molto simili a quelli di una banale soap opera della tv. Discorso tutto al negativo anche per la colonna sonora, sulla quale il sottoscritto nutriva grandi aspettative, data la supervisione di un eccelso musicista come T-Bone Burnette; ci troviamo invece a che fare con un commento sonoro decisamente mediocre (lo so che non c'entra ma, data la contemporaneità delle due uscite in sala, non posso non pensare all'ottimo lavoro svolto da Danny Elfman per Tim Burton). Allora, funziona così: si prende un telefilm con l'anima da soap opera, gli si dà una mano di vernice indie, e poi lo si vende come blockbuster. Mmh...brutta storia.
Voto: 4
PS: recensione di Curzio Maltese su Repubblica del 4/5/2012
Al confronto di Hunger games, il fenomeno che in America ha polverizzato tutti i record d’incasso, la saga di Harry Potter sembra scritta da Shakespeare. È difficile trovare perfino fra i blockbuster una sceneggiatura così banale, con un finale prevedibile fin dal primo minuto, una scrittura dei personaggi altrettanto univoca, con i buoni garantiti al limone e i cattivi ridotti a una maschera di crudeltà. Non bastasse, mentre l’inglese Rowling s’inventa un mondo letterario intorno al suo maghetto, la Collins, autrice del bestseller americano, si limita a copiare e assemblare un’infinita serie di miti classici, a cuocerli nel grasso della sottocultura televisiva e a distribuirli come tanti pacchetti di pop corn all’ingresso delle sale. La storia in breve è quella di un’America del futuro, caduta in una dittatura grottesca e feroce, dove ogni anno i dodici distretti che la compongono sono chiamati a offrire il tributo di ventiquattro giovani (un maschio e una femmina ciascuno) da mandare al macello in una specie di edizione sanguinosa dell’Isola dei Famosi. Alla fine soltanto uno sopravvivrà alla prova. La protagonista Katniss Everdeen, la bellissima Jennifer Lawrence, si offre volontaria al posto della sorellina come rappresentante femminile del dodicesimo distretto, il più povero, quello degli schiavi minatori. Accanto all’eroina con arco e frecce, novella Diana, si presenta l’innamoratissimo Peeta Mel-lark, il bravo Josh Hutcherson, che le farà da scudiero. Date le premesse, come andrà a finire? L’oggettiva miseria artistica di Hunger games, non emendata dal talento del regista Gary Ross ( Pleasantville, Seabiscuit) e neppure dal genio di due attori formidabili come Donald Sutherland e Stanley Tucci, nei ruoli del vecchio dittatore e del cinico presentatore televisivo, rende naturalmente ancora più avvincente il mistero dello straordinario successo. All’impero americano piace rappresentarsi certo con le metafore dell’antichità, che qui sono sparse a piene mani, dal mito del Minotauro alla lotta dei gladiatori, agli stessi nomi del regno, Panem («i circenses sono scontati», ha scritto Vittorio Zucconi), e della città, Capitol. Da sociologi da strada, si può citare anche la paura per la fine della democrazia e l’angoscia per il futuro delle giovani generazioni, vampirizzate da una società egoista e gerontocratica. Due elementi che non mancano in nessuna delle saghe popolari di questi ultimi vent’anni. Ma la vera ragione del successo del film è probabilmente la più deprimente: il gelido calcolo commerciale dell’operazione, il grado zero di scrittura e invenzione, la totale aderenza agli stilemi televisivi. Hunger games è uguale alla televisione, ma portata all’estremo dagli effetti speciali del grande schermo. Per dirla con le immortali parole di Macbeth, Hunger games è come "la vita di tutti i giorni, una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla".
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