Regia di Larry Charles vedi scheda film
“Mi hanno pagato per ucciderti, però ti torturerò gratis.” Intelligentemente cinico. Perfidamente esilarante. È il nuovo, irresistibile travestimento di Sacha Baron Cohen, che qui vediamo indossare i panni dell’ammiraglio generale Aladeen, dittatore dello stato nordafricano di Wadiya, ed in procinto di dotarsi di armamenti nucleari. La sua storia di despota che finisce “in mutande” in conseguenza di un grottesco equivoco, è una parodia nella parodia: il film, nel ridicolizzare la figura di Saddam Hussein, en passant ironizza, bonariamente ma non troppo, su The Devil’s Double, recente opera cinematografica tratta dall’autobiografia di un sedicente sosia del figlio maggiore del rais. Il principale, scontato bersaglio del dileggio, tanto demenziale quanto arguto, è però la politica estera statunitense, che, sotto la fragile egida dell’ONU, riesce a passare dal più ottuso decisionismo militarista ad un patetico entusiasmo pacifista, non appena nell’aria si sente echeggiare la suadente cadenza della parola democrazia. Lo scacchiere internazionale è una partita inconcludente giocata, da un lato, dai tiranni dal capestro facile, che minacciano, esplicitamente o implicitamente, di sferrare attacchi atomici, e, dall’altro lato, dai rappresentanti del cosiddetto mondo libero e civile, che emanano proclami illuministici per mascherare interessi strategici ed economici. La provocazione è ben presente, in questa sceneggiatura che fa del politicamente scorretto una forma di poesia mordace e indiavolata; ma questo è soprattutto un film comico, infarcito di iperboli e caricature, che strizza abbondantemente l’occhio all’Adenoid Hynkel di Charlie Chaplin, soprattutto nel gusto per la mimica goffamente allusiva e per le coloriture linguistiche. Ancora una volta, un autore ed attore di origini ebraiche scherza ferocemente sull’antisemitismo, riducendolo alla solitaria mania di un soggetto paranoide, al pari dell’ossessione per il sesso o della megalomania di chi pretende sempre e comunque di vincere, anche a costo di eliminare fisicamente gli avversari. La critica non risparmia, però, nemmeno la controparte umanitaria e non-violenta, includendola nelle aberrazioni che contribuiscono all’attuale globalizzazione del caos. L’intera giostra ideologica dei giorni nostri, in fondo, è l’espressione di uno spirito debole, compresi quei movimenti alternativi che urlano in piazza, ma poi si mantengono gandhianamente remissivi, respingendo quel minimo di condiscendenza con le regole vigenti che consentirebbe loro di farsi valere. I buoni sentimenti e la buona volontà possono forse aprire una parentesi rosa in mezzo all’orrore, ma non bastano a cambiare le cose: il finale ribadisce, in maniera pungente, questo concetto moralmente crudele, che suona come un urgente invito a non farsi illusioni, e a guardare in faccia la realtà. Ridere dei soprusi e delle logiche di morte non è semplicemente un modo per esorcizzare la paura: è un esercizio di rassegnazione alla presenza di un male potente ed inestirpabile, saldamente radicato nella storia, benché sia opera della lucida follia di pochi uomini. The Dictator lo tratta per quello che è: una fonte di innumerevoli assurdità, che nascono nell’ignoranza e si nutrono di un istinto vorace, vivido ma degradante, come lo è, del resto, l’essenza di tutte le battute sporche.
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