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Canzoni del secondo piano

Regia di Roy Andersson vedi scheda film

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La recensione su Canzoni del secondo piano

di Peppe Comune
9 stelle

Il lavoro di Kalle (Cars Nordh) è andato letteralmente in fumo, nulla è rimasto della sua attività lasciandolo nello sconforto più totale. Cerca di rimettersi in gareggiata con un lavoro di rappresentante, ma occorerebbe l’idea giusta per spiccate il volo. Ha un figlio (Peter Roth) rinchiuso in una clinica psichiatrica, un poeta che non vuole saperne più di parlare. Intanto, alcune vecchie conoscenze passate a miglior vita vengono a trovarlo. Intorno a lui sembra muoversi un’umanità dolente e insoddisfatta. Tutti si muovono in una città bloccata dal traffico, che sembra procedere verso un’unica direzione, anche se non si sa precisamente quale.

 

Canti dal secondo piano. Scena.

 

“Canti dal secondo piano” del regista svedese Roy Andersson è il primo capitolo della trilogia “sull’essere un essere umano”, continuata con “You, the Living” e conclusa con “Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza” (premiato con il Leone d’oro a Venezia). Tutti film incentrati su un’umanità che sembra totalmente ignara del proprio destino, immobile e disorientata come solo chi è succube del disincanto può essere. Una poetica “umanista” che riflette in chiave allegorica su quanto il senso dell’assurdo stia divorando il mondo corrodendone le migliori coordinate (in particolare, si veda la sequenza di una folla di gente in processione che conduce una bambina bendata fino all’orlo di un burrone per praticare una sorta di sacrificio umano). In “Canti dal secondo piano”, la regia di Roy Andersson è modulata dal modo surreale con la quale viene costruita ogni singola sequenza, mentre caratterizzati da una fissità anaffettiva sono i volti cadaverici catturati dalla macchina da presa, specchi evidenti di un’umanità ridicolizzata dalla sua stessa impotenza. Il film non segue un andamento lineare, ma è come se si adagiasse all’occasione del momento, assecondando il caso che prepara i suoi scenari tenendo conto della multiforme eterogeneità del genere umano. Kalle è l’unico ad attraversare il film in tutta la sua interezza, conferendo un minimo di senso all’insensata rappresentazione di particolari spaccati d’esistenza. Roy Andersson gioca con i corpi e la ripetitività di frasi ripetute molte volte per farne la matrice simbolica di un mondo inabissato nella sua monotona conservazione, il tempo e lo spazio non si aprono verso la scoperta dell’infinito, ma sono compressi all’interno di inquadrature ben delineate, organizzati in modo da privilegiare l’ordine gerarchico tra chi è sopra e chi è sotto, tra chi può volgere lo sguardo verso l’altro e l’oltre e chi è impossibilitato a farlo perché vive rasente il suolo.

Il secondo piano è un’altezza sufficiente per vedere l’orizzonte lontano e riuscire a penetrare la coltre di cenere che avanza. Dal secondo piano è possibile ridare un valore al senso della vita perché ci si avvicina alla nitidezza del cielo. Il secondo piano è abitato dagli uccelli che cinguettano indisturbati e dagli angeli che ogni tanto decidono di scendere per controllare da vicino lo stato di salute del mondo. Dal secondo piano si ode il canto che salverà il pianeta da una catastrofe sicura.

Al primo piano ogni persona riflette sul peso della propria esistenza, medita su quanto fatto e cerca di porvi un rimedio. Al primo piano ci sono gli appartamenti che si chiudono a riccio sul mondo esterno, chiuse a chiave le porte, le persone piangono, parlano a telefono, ripetono parole imparate a memoria, rimangono fisse a guardare chissà dove, si masturbano. Non ridono mai, perché dal primo piano non si può vedere il cielo, ma solo quello che accade per la strada. E non è un bel vedere.

Al piano inferiore, a strettissimo contatto con la vita di tutti i giorni, è tutto un centrifugare emozioni, offendere la dignità umana, desacralizzare la vita, anestetizzare i sentimenti. Il piano terra è un ingorgo metallico che può durare un’intera esistenza se non se ne conoscono i motivi che l’hanno originato e non si riescono a pensare le ragioni della fine. Al piano terra, ogni persona prende coscienza di quanto sia difficile, oggi, rimanere un essere umano.

Questo sembra rappresentare (come suggerirebbe anche il titolo) in chiave simbolica il mondo architettato da Roy Andersson, una sorta di girone dantesco dove ad ogni individuo è dato portare la sua croce e dove scendere verso il basso significa per ogni singola persona prendere sempre più coscienza della difficoltà a vivere pacificamente accanto  ai suoi simili. Un mondo anemico attraversato dal susseguirsi estemporaneo di cose surreali : case che si muovono, persone rimaste incastrate per delle circostanze bizzarre, un uomo picchiato per la strada nell’indifferenza generale, un altro che si ferisce con un numero di magia con la sega, un corteo di fustigatori che attraversa la città, un infanticidio commesso pubblicamente, defunti che vengono dall’aldilà, un poeta pazzo che sembra incarnare l’aggiornamento delle beatitudini bibliche (“Beato colui che sta seduto”, ha scritto da qualche parte). Un mondo dominato dal senso dell’assurdo quindi, che immobilizza gli uomini rendendoli schiavi delle proprie debolezze, facendoli oscillare tra la rabbia e l’incredulità, l’apatia e l’insana attitudine di tirare avanti, il disincanto e la forza istintiva di volgere lo sguardo verso il cielo. In questo generale immobilismo, a dominare sembrano essere gli anziani, simbolo esplicito del decadimento dei corpi e dell’offuscamento delle memorie (si veda la sequenza dell’infermo filonazista), sono loro a prendere le decisioni più importanti (si veda la sequenza del consiglio d’amministrazione). Sono loro a fornire l’dea più prossima alla morte, a rappresentare quanto il mondo sia vicino ad un’irreversibile decadenza. Non è un caso che Roy Andersson faccia della cenere un elemento molto presente nel film, una cosa che sta li a significare, nello stesso tempo, sia la possibilità che dalla cenere si può sempre rinascere a nuova vita, che il senso di distruzione irrimediabile che getta l’uomo moderno nello sconforto più profondo.

Come capita in tutta la trilogia, sullo sfondo c’è sempre una mera questione di soldi, una faccenda spiccatamente materialista che non risparmia neanche un’icona sacra come il crocifisso (si veda la sequenza dei crocifissi di diversa dimensione buttati via in una discarica abusiva), una prassi mercantile che induce a considerare il valore da attribuire alle cose solo in ragione del profitto che sanno generare (“La vita è un mercato, è una cosa semplice. Tutto non è che un comprare qualcosa che puoi vendere con uno zero extra”, dice uno con ostentata sicurezza). Si è quello che si riesce a guadagnare, non ci sono coordinate attendibili se non quelle misurabili attraverso il successo che si ottiene facendo dei buoni affari (si veda la sequenza del commerciante che ritiene che il compleanno per i duemila anni di Gesù Cristo  sia un ottimo motivo per fare affari d’oro). Altrimenti, è tutto un rimanere fermi ad osservare il vuoto, un praticare rapporti umani senza suscitare calore, un costruire sentimenti senza provare affetto. Oppure, un muoversi disordinatamente senza neanche sapere il perché, un fuggire disarticolato seguendo semplicemente la scia. Un muoversi rimanendo fermi, insomma, come il traffico che dura da più di otto ore perché “sembra che vadano tutti verso la stessa direzione”. O il poetare farneticante di un pazzo volontario, che ha scelto il silenzio per ascoltare i canti che arrivano dai piani alti del mondo.

Grande cinema, che tende all’impegno senza risultare eccessivamente pesante. Perché specula attraverso le immagini usando la sottile arma dell’ironia, tra l’immersione nel grottesco e il riflettere amaro. Viva Roy Andersson.      

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