Regia di Roy Andersson vedi scheda film
Buffa la vita al piano Terra, come una canzoncina irriverente, spensierata, a tratti stonata e spesso pure malinconica, proveniente dal piano di sopra. Chi la stia suonando è superfluo saperlo: il Fato, Dio o chi per loro; perchè è superfluo perfino ciò che a Roy Andersson in questa pellicola interessa raccontare: il punto della questione non è tanto il narrato, che prescinde totalmente dalle logiche di cause ed effetti: è piuttosto la narrazione in quanto tale, la creazione di uno scenario che riproduca il bizzarro presente dei giorni nostri. Un'odissea frustrante, eppure così 'straordinaria' (extra-ordinaria) nel suo insondabile mistero più profondo, affrontata come se non ci fosse alternativa da una manciata di personaggi ben poco affascinanti, sicuramente tutt'altro che geniali, lo specchio insomma della più quieta e rassegnata quotidianità. Che cela l'impossibile, l'imperscrutabile, l'incomprensibile: è possibile chiudersi una mano dentro alla portiera del treno, scendendo alla stazione? Evidentemente sì; ma quante probabilità ci sono che ciò accada? Solo il Fato lo sa; Dio non è del tutto escluso a priori, ma certo ad Andersson (anche sceneggiatore) non preme più di tanto la questione, anzi il regista nella scena finale decide di abbandonarla in una discarica (metaforicamente: di pensieri, di illusioni, di sogni, come quelli che affronta in quel momento Pelle, circondato dai morti e dai più dickensiani rimorsi). E' un cinema di allegoria, essenzialmente, quello che propone questo Canzoni del secondo piano; ma Andersson non disdegna l'utilizzo di metafore, parodie e parabole surrealiste (la folla di gente a piedi, per strada, in cui ciascuno avanzi di un passo, frusta il pedone davanti a sè e cade a terra sotto la frustata del pedone di dietro; per poi rialzarsi e ricominciare: Bunuel fatto e finito, e pure un 'bunuelismo' sottilissimo, decisamente raffinato). Il discorso è esistenziale e il cinema è l'arma adatta per affrontarlo quando si ha a che fare con un talento immaginifico e originale come quello del cineasta svedese; tanto che non pare assolutamente immeritato, qua e là, il paragone con il Maestro conterraneo Ingmar Bergman: i paralleli fra i due possono ritrovarsi in una certa sfiducia nel genere umano, nell'ansia di concretizzare una comunicazione fondamentalmente impossibile, nella dolce rassegnazione di fronte agli umani incubi e nel susseguente tentativo di 'farseli amici', di convivere con essi. Curiosa la storia di Andersson: dopo un discreto successo con l'esordio di A swedish love story (1970), il suo perfezionismo causò lungaggini e ingenti sforamenti di budget per l'opera seconda, Giliap, uscito solamente nel 1975. La pessima accoglienza del pubblico e i debiti contratti lo fermarono per lungo tempo, durante il quale si dedicò a spot, cortometraggi e lavori puramente commerciali. A un quarto di secolo esatto di distanza ecco infine uscire Canzoni del secondo piano: ma in realtà la lavorazione era cominciata ben quattro anni prima, nel 1996. Premio della giuria a Cannes, Canzoni del secondo piano ha infine un peculiarissimo approccio alla scena: la macchina da presa è perennemente fissa e ferma; sebbene i luoghi dell'azione cambino spesso e siano doverosamente curati, tutto il movimento è affidato agli interpreti; rimane pertanto sempre l'impressione di trovarsi come davanti a una candid camera, a un punto di osservazione immobile e magari accidentale (quasi richiamando con ciò uno spirito voyeurista), completamente avulso dalla scena. Cast sterminato, in quanto opera corale, ma senza grandi nomi; il regista si occupa anche del montaggio. 9/10.
Una serie di storie verosimili, ma a un passo dall'impossibile, si intrecciano in una cittadina nordica: un impiegato che ha appena incendiato (dolosamente) la propria ditta, un uomo con una mano incastrata nella portiera del treno, un tale convinto di fare affari vendendo crocifissi, un mago che sega a metà uno spettatore per errore...
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