Regia di Mia Hansen-Løve vedi scheda film
15 sono gli anni di Camille, 19 quelli di Sullivan, «amore» è la parola con cui chiamano ciò che li unisce. Ma è un termine instabile, il suo significato oscilla, per ognuno, in ogni istante. Lui parte per il Sudamerica, da lontano, poi, le scrive «addio». Lei non crede che ciò che sente sia acerbo, ostinata cerca di togliersi la vita, come aveva promesso, minacciato. Negli anni si riprende, si concentra sull’architettura, frequenta il suo professore, lo emula, lo ama. Lui è tornato, non è cambiato, non è cambiato nulla. O forse. O forse sì. Mia Hansen-Løve, dopo Tout est pardonné (inedito da noi) e Il padre dei miei figli, chiude una trilogia sul superamento dell’assenza e guarda all’amore che non si scorda mai: il primo. Parlando (anche) di sé, perché la relazione con il docente richiama la propria con Olivier Assayas. C’è il cinema francese d’annata, qui. Quello che non conosce scene madri, quello che coglie nei silenzi, nelle stasi, nei dettagli di un giorno qualunque l’essenza dei sentimenti: da Garrel la precisione dei particolari, da Eustache l’acume sociologico, da Rohmer la levità di scrittura. E quando sul finale l’ingenuo simbolo dell’amore se ne vola via sulle note di Johnny Flynn (unica concessione alla forzatura poetica), ci sovvengono teneri e amari quei versi che chiudono una poesia di Sereni, dopo che i baci erano nell’aria: «Ma nulla senza amore è l’aria pura/l’amore è nulla senza la gioventù».
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