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Cosmopolis

Regia di David Cronenberg vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Cosmopolis

di Inside man
10 stelle

Nella discussione pro o contro apertasi su Cosmopolis credo non si sia finora tenuto adeguatamente conto del fondamentale trait d’union che lega l’opera a Videodrome e chiude un “cerchio rosso” rimasto profeticamente aperto in quell’ormai lontanissimo 1983.

 

A compiersi è infatti il percorso a ritroso "dell'uomo cronenberghiano” divenuto al termine di Videodrome "macchina elettronica vivente” e qui tornato a riappropriarsi della sua carne, “dell'altra parte di se, quella sensibile e imperfetta". Un tentativo di recuperare la dimensione vitale perduta durante il lungo processo di auto-annullamento implosivo nella realtà virtuale di nuovi media in rapida evoluzione che lungi dall’esaurirsi sta accompagnando l'umanità alle soglie di un’autentica bio-metamorfosi, quella che Badu D Shinya Lynch definisce, credo con reminiscenze tetsuiane, “parte ineccepibile e metallica dell'umanità" (le citazioni dalla sua acuta recensione mi pare colgano il nocciolo della questione e la giusta collocazione all’interno della filmografia del grande maestro canadese).

Una rinascita dunque, dagli abissi in cui era sprofondato sotto l’incedere del devastante cyber-capitalismo degli ultimi 20 anni, quell’incalzante mix di informatica e finanza che aldilà delle entusiastiche aspettative ha finito per non spostare di una virgola le dinamiche del sistema di potere economico fra i pochi dominatori e una moltitudine di sfruttati più o meno inconsapevole.

 

Nei primi anni “80 Cronenberg aveva delineato un quadro specifico e filosoficamente approfondito della novecentesca “epoca elettromagnetica”, rivelandosi come il maggiore interprete per immagini delle teorie sociologiche di McLuhan “sull’evoluzionismo mediatico-tecnologico delle civiltà”, e suggellando con quell'opera un punto imprescindibile nella rappresentazione cinematografica di quel rapporto uomo-media (e non uomo-macchina come si tende troppe volte a confondere), che con l’affermazione di internet ha conosciuto una trasformazione di immani proporzioni (e solo da poco, passata la festosa ubriacatura inaugurale segnata dai soliti ottimistici proclami anarchico-libertari che qualcuno ancora cavalca, abbiamo iniziato a comprenderne i rilevanti effetti avversi).

 

Il Cosmopolis del duo Croneberg/De Lillo conclude idealmente quel discorso portando in dote un esile filo di speranza: se il Max Renn di James Woods, sedotto dalle proprie pulsioni erotiche e sadomaso e dall’esca di snuff video carichi di presunte violenze reali, veniva letteralmente incorporato nel medium (televisivo), “assimilato” tramite la morte “metaforica” delle restanti percezioni umane, nel 2012 è Packer il neo-uomo 2.0 impersonato da Pattinson a presentire il bisogno di uscire da un mezzo virtuale in cui risiede in totale simbiosi, quella casa/utero iper-tecnologica rappresentata dalla limousine, autentico e alienante involucro non più televisivo ma computerizzato dai cui finestrini/schermi/monitor osserva un mondo esterno reale, caotico e blade runneriano (precursore ineludibile datato 1982), in preda all’ennesima catastrofica crisi della sua storia.

 

 

Se nella pellicola del 1983 era il “medium a farsi messaggio” plasmando la vita dell’uomo fino a fagocitarlo completamente, in Cosmopolis è  “il messaggio” a voler cercare una disperata via di fuga, una sorta di rigetto traumatico e scioccante capace di privarlo di una vita  viscerale e ormai fittizia per un nuovo inizio (ancora un’uccisione traslata, stavolta “post-parto”).

 

Il film parte là dov’era terminato Videodrome, personaggi configurati come replicanti di ultima generazione, perfetti e impalpabili spettri simil mr. Smith di Matrix; tuttavia, a differenza della sua corte, Packer si mette da subito alla ricerca di una dimensione terrena, avverte in maniera impellente la necessità di riappropriarsi della propria essenza secondo un doppio binario d’azione parallelo e contrario; da un lato liberarsi progressivamente dello stile di vita, dei compagni di viaggio (compresi body-guard e pseudo moglie), dei beni tecnologico/finanziari incarnanti quell’universo distorto di bit e tassi di cambio, oramai identificati come cause all’origine dei mali del nostro tempo e non semplici effetti (si nota l’influenza della critica al postmodernismo di area marxista, in particolare di Fredric Jameson), e dall’altro il ritorno alla tradizione di stampo orale (quanti hanno rimproverato una presunta prolissità dei dialoghi, malediranno la malaugurata idea di aver approcciato questa disamina ben più noiosa) e soprattutto l’acquisizione della sensibilità smarrita reificando la piena riconquista dei cinque sensi, o per meglio dire dei quattro sensi subordinati a quella vista vera dominatrice dell’era industriale timidamente nata cinque secoli orsono con l’invenzione di Gutenberg e la prospettiva albertiana, e oramai al crepuscolo.

Sono infatti le parole legate ai desideri reconditi di Packer ad essere continuamente evocate nelle conversazioni: odori primordiali, suoni antichi, il gusto dei cibi, il sesso come unica forma sincera di contatto, di contro le immagini filtrate dai vetri smerigliati dell’auto sembrano così fredde e artificiose, come se il dominio della vista fosse in netto declino al tempo delle interconnessioni via etere e l’unica potentissima icona dei nostri giorni non possa che rimanere la pittura pulsante e radiosa di Rothko, probabilmente l’unica capace di raggiungere una dimensione altra rispetto ai confini determinati dalle lunghezze d’onda del nostro spettro ottico.

 

La ricerca di Packer è l’Anabasi e al tempo stesso il bildungsroman dell’uomo del XXI secolo:  spintosi (risucchiato) troppo oltre, deve arrischiare una via di fuga dall’implacabile teorema mc-luhaniano, la sua sfida è la nostra stessa (utopica) sfida, posizionarsi al centro del mondo per riuscire finalmente a governare i prodotti della techne senza divenirne involontariamente succubi. L’ultima spiaggia prima che “il topo diventi moneta corrente e infine ci divori”.

Oltre al viaggio verso le origini, Cosmopolis è altresì un romanzo di formazione piuttosto classico nella forma e tuttavia rivoluzionario nell’enunciazione tematica, per come riesce magistralmente a metaforizzare il recupero di una concretezza umana dai meandri parcellizzati dei territori della rete (esame che sarebbe stato improbo per qualunque altro maestro del cinema contemporaneo).

 

Per sfuggire (e salvarsi?) da un sistema chiuso e autonomo (mediatico, informatico, capitalistico), divenuto inattaccabile dall’esterno (l’ovattata e insonorizzata limousine non teme proiettili né vernici spray, rivolte popolari o sguardi indiscreti), il protagonista deve invertire la marcia (dal centro alla periferia) aggrapparsi all’anomalia (il leit motiv fondativo e imprescindibile di tutta la distopia cibernetica), e farsi forza della sua graduale invasività: il virus espulso dall’organismo e creduto debellato (il Benno Levin di Giamatti), l’imprevedibilità dello yuan, le ragioni di una folla esasperata che in una delle scene più pregnanti del film vengono sviscerate con socratico distacco dall’altrettanto anomala esperta di teoria (Morton) che al pari del filosofo greco svolge la funzione di demolitrice interiore delle fragili sicurezze di un Packer in via di metamorfosi.

 

Innescato il germe del dubbio ogni dettaglio d’imperfezione comincia ad assumere consistenza: la prostata asimmetrica, l’inafferrabilità esemplare della cappella Rothko, le minacce dei terroristi (o dei partigiani?), mentre si fanno spasmodici gli appetiti legati al cibo, al sesso (il cui odore è subliminalmente insopportabile per l’algida consorte), ai rumori, ai frequenti contatti fisici, tutti assecondati dal movimento fuori-dentro la limousine. Lampante come gli eventi “materiali” accadano quando Pattinson esce dall’auto in un riecheggiare le coppie wölffliniane di “forma aperta-chiusa”: l’amplesso in hotel, le colazioni al bar con le inutili avances alla Gadon, il sapore della torta in faccia, la scarica di un teaser, il tocco delle forbici sul cuoio capelluto, gli omicidi, e naturalmente l’intero finale, mentre divengono sempre più accessori i ritrovati elettronici a riconoscimento vocale, il sughero alle pareti, gli aerei da caccia negli hangar, i check-up medici, report finanziari e lezioni di teoria; niente più denaro, byte e compravendite azionarie, bensì ossigeno, sangue, sporcizia, poco importa che si tratti di amare, credere, scopare, uccidere, rovinarsi o piangere (per la morte di una star musicale), quella di Cosmopolis è la più genuina delle rieducazioni esistenziali, il ritorno all’indispensabilità di tutto ciò che le equazioni, i logaritmi matematici e i milioni di dollari possono tradurre, spiegare ma non creare. 

 

Scenografie asettiche e ultramoderne si abbinano progressivamente a paesaggi metropolitani sempre più degradati, esito di un’antifrastica discesa agli inferi dagli eleganti e affollati (seppur in subbuglio) quartieri centrali diurni ai desolati sobborghi notturni.

Nel finale il protagonista giunge nella periferia più malfamata e deserta, confine estremo e cuore di tenebra della civiltà cyber-capitalistica (“…dove le limousine vanno a parcheggiare…”), regno anarchico e abbandonato dei rari uomini liberi e reietti.

Il disfatto bilocale di un fatiscente palazzo di questo ghetto (fra reminescenze kafkiane e orwelliane), è il luogo deputato alla catarsi finale di Packer: provare l’estremo dolore fisico (sparandosi ad una mano) è l’ultimo atto formativo prima di un'esecuzione che con un colpo di genio Cronenberg lascerà in sospeso rispetto al libro; l’ultimo scambio dialettico con la propria nemesi, il boia Benno Levin, la pistola alla nuca, lo sguardo nel vuoto, l’espressione tra il sardonico e l’allucinato (antitetica rispetto all’avvio del film sembra richiamare il caratteristico e turbato volto giovanile di James Woods/Max Renn), silenzio, schermo buio, quindi l’immagine in dettaglio di uno dei portali metafisici di Rothko e Long to live parte in sottofondo: forse la nuova dimensione di una rinascita?

 

 

Le intuizione geniali di Cronenberg non si esauriscono e corroborano la doppia lettura di opera cardine sia personale che post-moderna (in senso polemico), a cominciare dai richiami alla storia delle arti: i titoli di testa citano esplicitamente l’arte pittorica per antonomasia dell’era elettromagnetica, il dripping di Pollock (la simbolica recisione del cordone ombelicale con la tela per un più imprevedibile e rapsodico gesto nello spazio), e sui titoli di coda il cerchio si chiude con i vertiginosi dettagli cromatici dell’altro gigante dell’espressionismo astratto quel Rothko della cui crescente importanza sulla scena contemporanea abbiamo già detto.

Musicalmente poi la colonna sonora ha un fascino superbo (Mecca di K’naan, le tracce di Howard Shore e Metric tra cui spicca Long to live) con la ciliegina sulla torta del cenno alle struggenti e funeree composizioni per piano di Satie, musicista quanto mai vicino alle avanguardie Dada dei primi del novecento (il protagonista afferma di rilassarsi nell’ascensore privato la cui velocità è sincronizzata al ritmo di quelle note).  

Sfaterei pure l’assioma di una dipendenza eccessiva dal libro da cui è tratto: il lavoro di De Lillo pubblicato nel 2003 si adattava come un guanto agli intenti di Cronenberg in primis perché proveniente da comuni matrici teorico-scientifiche di partenza (da McLuhan a Fredric Jameson appunto) tanto da dare luogo più che a un processo "d'innesto" a una vera e propria osmosi ideologico-intellettuale, e in seconda istanza non sarebbe da escludere a priori l’ipotesi di un’influenza anteriore dello stesso scrittore nei riguardi dei temi e degli stilemi del cineasta canadese. 

 

Trovo inoltre ingiustificate le accuse piovute sul regista di aver abiurato la cifra poetica del suo cinema, ossia la rinomata trasformazione della carne, perché al contrario questo film né è un paradigma esaustivo e forse conclusivo, il tassello ad incastro mancante sin dalla storica concezione di Videodrome e al contempo una delle sue vette artistiche.

Se apparentemente non dovrebbe esserci cambiamento nel protagonista e in coloro che sfilano all’interno della limousine/medium in quanto semplici (e complessi) esseri immateriali, alla conclusione di questo particolarissimo tragitto la tanto sospirata metamorfosi avviene effettivamente in antinomia con la consueta tematica cronenberghiana (qui l’alterazione rigenera e non dilania l’essenza dell’individuo) e nondimeno con un disfacimento fisico tangibile e paradossale e sopra ogni cosa con l’implacabilità estetica delle opere migliori (ovviamente priva delle corpose venature splatter e gore che avrebbero stonato in quest’ambientazione digital-morfica; comunque non dimentichiamo che la violenza, i corpi in fiamme, i tessuti vibranti sono sempre presenti e in maniera significativa al di fuori dei finestrini della limousine).

Dopo un quarantennio di carriera, siamo quindi di fronte a un ribaltamento che esalta e non attenua le dinamiche mutanti cronenberghiane, che definisce e non estingue un ciclo.

 

Cosmopolis è un film estremamente complesso e stratificato, bisognoso di più visioni per essere grandemente apprezzato (oppure odiato), denso di rimandi diretti a tutti i topoi cronenberghiani. E' una tappa cruciale del percorso poetico-filosofico di questo gigante del cinema nonostante soffra di un segmento drammaturgicamente non impeccabile (dall’episodio dell’estemporaneo "attacco dolciario" di Amalric alle schermaglie con Giamatti, tono e ritmo perdono qualche colpo così com’era avvenuto con la bizzarra resa dei conti tra i fratelli Cusack nell’altro recente capolavoro A History of Violence), .

 

Qualche nota infine per gli attori: l’etereo Pattinson fornisce una prova maiuscola risultando perfetto nei panni di questa sorta di miscuglio fra l’imberbe e rampante guru informatico (tipo i vari Gates, Bezos, Jobs o i più giovani Brin e Zuckerberg) e uno dei misteriosi “maghi” dell’alta finanza che giocando con derivati, mutui sub-prime, spread e quant’altro dominano il villaggio globale e “prevedono il nostro futuro” disponendo a piacimento della rovina o meno di milioni di esseri umani (per intenderci nello stile dei personaggi di Jeremy Irons e Simon Baker nell’ottimo Margin Call di Chandor).

Lasciano il segno pure le apparizioni della Morton e della Gadon laddove decisamente meno buone sono le brevi performance della Binoche e di Giamatti di cui si fanno sempre più fatica a sopportare le affettate recitazioni degli ultimi anni.

 

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