Regia di James Watkins vedi scheda film
Il nuovo corso della rediviva HAMMER ricomincia dal passato: il gotico. Genere andato in senescenza agli inizi degli anni 70 in favore di orrori più moderni. Con The woman in black, diretto da James Watkins adattando un romanzo del 1983 di Susan Hill, torna l’inizio del ‘900 inglese, quando la modernità del tempo non aveva ancora scalfito le superstizioni folkloristiche dando origine a una terza “dimensione” culturale ibrida di entrambe le istanze, incomprensibile e quindi spaventosa. Il giovane avvocato, vedovo, Arthur Kipps (Daniel Radcliffe), viene mandato in una sperduta magione della campagna inglese per esaminare i documenti testamentari della deceduta proprietaria. Il luogo è abitato da spettri e il paesello rurale è sconvolto dalle morti improvvise dei bambini del luogo.
Operazione nostalgia, questo recupero filologico delle caratteristiche gotiche che fecero a fortuna della casa di produzione negli anni ‘60. Pienamente riuscita se conoscitori della storia del genere e se ci si abbandona con deliberata leggerezza all’ingenuità della vicenda, un classico della casa infestata da uno spirito vendicativo per i torti subiti durante l’esistenza carnale. Quello che conta è in realtà l’atmosfera e in questo il film non si fa mancare nulla adagiando l’occhio dello spettatore su un ben consolidato cöté di stereotipi tutti consapevolmente esposti per aderire il più possibile alla forma classica del gotico. La magione solitaria e decadente illuminata dai fiochi lumi delle candele, corridoi bui da attraversare più e più volte accumulando tensione. Porte scricchiolanti e ragnatele a profusione. I villici che osteggiano la venuta dell’eroe timorosi della maledizione che li opprime. Spaventi programmati secondo uno schema predefinito, ritmico e crescente. Tutto quadra, la storia è lineare e molto ben sorretta dalla ricostruzione scenografica dell’immaginario pomposo e decadente dell’epoca vittoriana che sotto gli austeri tendaggi e i nobili legni scuri cova crudeltà sopite incancrenitesi in tensioni orrorifiche. La pulizia delle forme gotiche tipiche della Hammer non trovano però piena corrispondenza in una messa in scena che lavora sull’accumulo più simile ai tetri castelli fatiscenti e necrotici della Universal anni ‘30. Inezie. Un senso di romanticismo decadente attanaglia l’animo del protagonista, il cui décor degli interni ne riprende lo stato di prostrazione emotiva che l’opprime per la prematura perdita della moglie e la cui vicenda ricalca la storia del giovane avvocato Jonathan Harker di Dracula (Bram Stoker), mettendo in scena la tensione tra folklore – i villici riottosi - e razionalità – il cittadino acculturato – sedotta dal palesarsi del soprannaturale che è alla base di ogni storia della tradizione gotica. Non che questo genere di cinema fosse sepolto prima di The woman in black, piuttosto il gotico si era aggiornato con costanza, fino ad astrarsi completamente dall’aspetto del racconto d’atmosfera per abbracciare la fisicità splatter delle case infestate degli anni 90. Recentemente Juan Antonio Bayona con The Orphanage – senza dimenticare Balaguerò di Fragile; Peter Mullan con Session 9 per dirne alcuni - aveva riscritto il genere contaminando la storia di fantasmi con il dramma contemporaneo della tragica perdita di un bambino, tema che è presente, in maniera molto più semplice, anche in The Woman in black.
Quindi un buon film di sani spaventi che trae la propria forza dall’immaginario del cinema della paura più classico rispettandone i crismi con osservanza religiosa e per questo più adatto ai palati nostalgici e ai cinefili che alle nuove generazioni. Ottimi gli attori, credibili e in parte soprattutto per la scelta di Daniel Radcliffe ex Harry Potter. Finale non banale, falsamente conciliatorio. O veramente anticonciliatorio, fate voi.
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