Regia di James Watkins vedi scheda film
Inghilterra nord-orientale, primi anni del '900: il giovane avvocato Arthur Kipps ha perso la moglie, morta di parto 4 anni prima e da allora sta molto male, è solo con il suo bambino e trascura il lavoro. Il suo capo gli dà un'ultima occasione, o perderà il posto: dovrà esaminare svariate casse di documenti riguardanti l'eredità di Alice Drablow, una solitaria vecchia signora morta di recente in un paesino desolato, raggiunto dal treno ma non dall'elettricità. Per di più la casa, una gotica e spettrale magione vittoriana con tanto di cimitero in giardino, sorge su di uno sperone roccioso ed è irraggiungibile per molte ore al giorno, ogni volta che si alza la marea le paludi che la circondano si gonfiano e la isolano dal mondo.
La fredda, a tratti spaventata accoglienza degli abitanti del villaggio sconcerta Arthur: appaiono addirittura terrorizzati quando dichiara l'intenzione, per sveltire il lavoro, di restare a dormire nella vecchia casa. Sente parlare di tragiche morti di bambini, assiste addirittura ad una di esse. Samuel Daily, signorotto del luogo e proprietario dell'unica automobile della zona, che pure ha una moglie impazzita dopo l'annegamento del figlioletto, è l'unico a restare razionale in proposito.
Dopo una serie di inquietanti apparizioni del fantasma di una Signora in Nero e nuovi, terrorizzanti avvenimenti, la lunga, caparbia disamina dei documenti porta Arthur a scoprire la dolorosa verità all'origine di tante tragedie: la defunta Alice aveva una sorella, Jennet, inferma di mente e che ebbe un bambino pur non essendo sposata; venne fatta interdire e il bambino le fu tolto. E il piccolo morì a 7 anni, annegato a seguito del ribaltamento del calesse nella palude di fronte a casa, sotto gli occhi della madre reclusa che lo spiava della finestra. Il corpo del bimbo non fu mai ritrovato e Jennet si impiccò dopo aver maledetto la sorella. Da allora ogni volta che qualcuno vede il fantasma della Signora in Nero un bambino si suicida (!).
Arthur, con l'aiuto di Samuel, decide di far di tutto per annullare la maledizione, ritrovare il corpo del piccolo per esorcizzare il fantasma; e crede di avercela fatta, ma....
Ci sarebbero state un sacco di ragioni per andare a vedere THE WOMAN IN BLACK: la prima è Daniel Radcliffe, finalmente NON nei panni di Harry Potter; c'è quello che doveva essere il ritorno alle origini della Hammer, casa di produzione inglese per anni sinonimo di horror classici, girati spesso in economia ma sempre ben fatti; e poi il romanzo di Susan Hill da cui il film è tratto. Romanzo breve in verità (l'edizione italiana è di 150 pagine scarse stampate in caratteri mooolto grandi): scritto nel 1983, ne fu tratta un versione televisiva molto apprezzata, ma soprattutto una versione teatrale di enorme successo, dal 1985 ad oggi ininterrottamente in scena, lo spettacolo di maggior tenuta nella storia del teatro britannico dopo l'imbattibile TRAPPOLA PER TOPI di Agatha Christie.
Date le premesse non pensavo che questo adattamento potesse essere così deludente: più che un film vecchio stile è semplicemente vecchio e basta, di una noia mortale (ho cominciato a guardare l'orologio dopo 20 minuti!), definitivamente brutto e totalmente sconsigliabile.
E' un disastro la sceneggiatura di Jane Goldman, autrice di grandi successi come STARDUST, KICK-ASS e soprattutto di STAR TREK-L'INIZIO. Per qualche ragione misteriosa ha rivoltato la trama del romanzo e appiccicato un finale risibile e posticcio ad una storia risaputa ed insipida, con pochi dialoghi stentati e battute banali fino al ridicolo.
Il regista James Watkins, fin'ora sceneggiatore e regista solo del gioiellino EDEN LAKE, si perde nel più becero citazionismo del grande catologo Hammer degli anni '50-'60. Per i primi 50 dei 95 interminabili minuti non succede praticamente nulla e i dialoghi sono pochissimi, il povero Arthur si aggira tutto solo e spaesato fra ragnatele, muffa e spifferi, cercando di venire a capo delle cartacce della defunta con l'aiuto di generose dosi di brandy. La scena in cui sente strani scricchiolii provenienti dal piano di sopra, corre a vedere, tenta di aprire la porta senza riuscirci, cerca una chiave dal mazzo, la porta si apre da sola e dentro c'è una sedia a dondolo vuota e un sacco di pupazzi a molla che funzionano senza essere stati caricati viene ripetuta QUATTRO VOLTE! Anche l'inquadratura con da un lato il primo piano di Arthur che sgrana gli occhioni e dall'altro lato sullo sfondo scuro il volto del fantasma è ripetuta una dozzina di volte. La maggior parte delle già deboli battute è declamata con enfasi da filodrammatica, e non credo dipenda dal doppiaggio italiano.
Le scenografie dell'ottimo Paul Ghirardani (ANNA AND THE KING, LA DIVA JULIA, LADY ANDERSON PRESENTA) sono attente e accurate come nella migliore tradizione britannica: ma perché mai avrà ricevuto l'ordine di trasformare una splendida magione vittoriana, lussuosamente arredata, in una lurida e desolata catapecchia? In fondo, secondo la storia, era abitata fino a poche settimane prima.
Il direttore della fotografia Tim Maurice-Jones (LOCK & STOCK, SNATCH, REVOLVER oltre che regista pubblicitario e di videoclip per Bjork e U2) fa un gran lavoro, dato l'utilizzo per la maggior parte del tempo di illuminazione naturale, candele e lampade a petrolio, rafforzandone l'espetto evocativo, e riesce a trarre il meglio dalle nebbie della palude.
In compenso gli effetti speciali sono molto poco speciali: tutta la tensione è affidata a ombre e scricchiolii, i saltuari sobbalzi sono per lo più causati da porte che sbattono.
Pur con la tara dell'inverosimiglianza della storia, mi piacerebbe sapere anche com'è possibile che il cadavere riesumato di un bambino di 7 anni, rimasto immerso nella melma di una palude salata per 15 anni, si presenti così bellino e giusto un po' pallido (forse è colpa mia che vedo troppi C.S.I.). E infine pretendo il licenziamento in tronco per l'addetto alla continuity: la barba di Radcliffe appare e scompare per tutto il film, mettendo in confusione lo spettatore che magari sospetta qualche macchiavello alla SESTO SENSO; niente di tutto ciò, è solo una sequela di errori di montaggio.
La colonna sonora dell'attivissimo e premiato Marco Beltrami (SCREAM, THE HURT LOCKER, RESIDENT EVIL, TERMINATOR 3 fra i tanti) si limita a scopiazzare in maniera irritante temi e stile di classici come CHE FINE HA FATTO BABY JANE, senza il barlume di un'idea nuova.
Doveva essere la grande occasione per Daniel Radcliffe di uscire con stile dai panni di Harry Potter, ma proprio non ce l'ha fatta: inespressivo, monocorde, lo sguardo fastidiosamente miope (non certo la miopia sorniona e intrigante di un Michael Caine), nasconde sotto i severi abiti vittoriani il corpo atletico ed esuberante esibito di recente in vari spettacoli teatrali, dove si era mostrato anche eccellente ballerino. Sarà per la prossima volta, diamogli fiducia.
Eccellente invece l'interpretazione del resto del cast, a cominciare da Ciaràn Hinds, grande attore irlandese (è stato due volte agente del Mossad: in MUNICH di Spielberg e nello splendido e misconosciuto IL DEBITO di John Madden, fra le sue migliori interpretazioni, oltre ad un affascinante Giulio Cesare nella serie tv ROMA) nei panni di Samuel Daily, diviso fra la razionalità di uomo colto e moderno in un paese di contadini superstiziosi e il suo dolore di padre.
La maestosa (è alta 1.85!) Janet McTeer (grande attrice teatrale, vincitrice di Tony e Golden Globe e strepitosa "imbianchina" candidata all'Oscar per ALBERT NOBBS) commuove nella parte breve ma intensa della moglie pazza di Samuel.
La povera Liz White (la dolcissima ma determinata poliziotta di LIFE ON MARS) imbacuccata com'è negli orridi veli luttuosi di Janet, avrebbe potuto essere agevolmente sostituita da un manichino.
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