Regia di David Fincher vedi scheda film
Raccontare per l’ennesima volta la trama di Uomini che odiano le donne di Stieg Larsson, ora alla sua seconda trasposizione cinematografica nel giro di due anni, è esercizio noioso. La sanno ormai anche i sassi. E poi David Fincher è molto chiaro in proposito: il suo Millennium. Uomini che odiano le donne non è il remake di nulla. Piuttosto un progetto su commissione, alimentare quindi, affrontato con tocco d’autore, intelligenza, prendendo a pretesto elementi dati (personaggi e situazioni) per raccontare qualcosa di nuovo rispetto al romanzo e all’omologo film svedese. La personalizzazione del copione e della vicenda si deve anche allo sceneggiatore Steven Zaillian, quello di Schindler’s List, che calca la mano sul nazismo dei Vanger come espressione, non radice, di un male sempre pronto a rigenerarsi e addirittura a tramandarsi di padre in figlio. Tutto interessante, per carità, come la scelta di mantenere le originali ambientazioni svedesi, ma fuorviante. L’autore di Seven (anche, però, dell’antispettacolare Zodiac) prende le distanze dal thriller, nonostante la sequenza della sodomia di Bjurman su Lisbeth sia terribilmente disturbante, e si concentra sul riscatto di due figure forti, Mikael e soprattutto Lisbeth (brava Rooney Mara), diversamente sole e sotto scacco. Poi, colpisce. Il suo Millennium è come un trapano che perfora la patina ipocrita delle regole sociali, per le quali non si può fumare in ufficio, in ospedale o in casa (attenzione però: tranne i potenti...), ma nessuno vede o sente che nelle viscere delle stesse dimore ci sono fanciulle fatte a pezzi. Le convenzioni della buona creanza e dell’alta finanza, dove si ha scrupolo di non offendere ma poco importa se qualcuno scompare, muore o uccide. Fincher, con il lungo epilogo parzialmente estraneo a libro e film svedesi, salda la prima parte della “carne” (i tatuaggi e i piercing di Lisbeth, la violenza sui corpi) con quella algida degli affari e della finanza, e rasenta il capolavoro cyberpunk, con il contrappunto delle potenti musiche di Trent Reznor e Atticus Ross e del metallo urlante che scorre sui titoli di testa. Infine: detestiamo ricorrere al “bella la fotografia” quando parliamo di un film, ma per il lavoro geniale di Jeff Cronenweth (già strepitoso ai tempi di The Social Network) bisogna fare un’eccezione.
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