Regia di David Fincher vedi scheda film
Per quanto il concetto appaia banale, mi sembra il caso di partire proprio dall'inizio. E cioè dai titoli di testa più clamorosamente belli tra quelli visti negli ultimi decenni. Così eccitanti e stilosi da non sfigurare accanto a quelli inarrivabili di Saul Bass. Essi si avvalgono di immagini strepitose accompagnate dalle note immortali di "Immigrant song" dei Led Zeppelin. Ma non basta. E' tutto il commento sonoro del film ad essere formidabile e a generare un effetto a tratti disturbante, in linea con l'impronta che il genio di David Fincher ha impresso al prodotto. Onore al merito, dunque, di quell'autentico "stregone dei suoni" che è Trent Reznor (già protagonista della scena rock più devastante coi suoi Nine Inch Nails), che ha curato la soundtrack coadiuvato da Atticus Ross. Diciamo subito che abbiamo a che fare con un film poderoso (due ore e quaranta!). E proprio per questa sua imponenza (che rivela una presunzione autoriale più che giustificata) è un film difficile da raccontare in sintesi. E qui mi collego ad una mia personale percezione. Confesso che in alcuni momenti ho faticato a tirare le fila della vicenda. Il problema è che al centro delle indagini condotte dai due protagonisti c'è una famiglia svedese i cui componenti sono talmente numerosi che inquadrarne razionalmente le rispettive trame e sottotrame diventa umanamente difficoltoso. Eppure proprio questo complesso intreccio di casi umani genera un fascino talmente intrigante, fatto di legami misteriosi, di collegamenti sotterranei, che alla fine il film si trasforma quasi in una sfida mnemonica allo spettatore. E sarà anche per questo che nei 160 minuti di visione non ci si annoia mai e che si resta inchiodati alla poltrona, pervasi da uno strano senso di eccitazione che rispecchia l'ansia di Mikael e Lisbeth di arrivare al cuore dell'indagine. Dovendo scegliere una categoria per questo film, opterei per la somma algebrica di tre formule: psyco, thriller, noir. Ciascuna delle quali intinte in un inchiostro nerissimo che assicura al prodotto un impatto decisamente cupo ed opprimente, peraltro una costante delle opere "nere" di Fincher. E allora togliamoci subito il pensiero. Cantiamo le lodi di questo straordinario regista, uno dei massimi autori del cinema contemporaneo. Mi capita a volte di commettere un errore, peraltro in buona compagnia: tendo a relegare Fincher in ambito thriller, quando in realtà l'ottimo cineasta ha dimostrato coi fatti di raggiungere vette di eccellenza anche quando ha debordato dai confini del poliziesco noir per invadere territori molto differenti. Certo, se scorriamo la sua filmografia troviamo film non tutti del medesimo livello, ma anche quelli di minore peso autoriale restano interessanti e mai banali. A fronte di tre pellicole modeste come "Alien 3", "The game" e ci metterei anche "Panic Room", abbiamo film sicuramente memorabili: il pluripremiato ""The social nerwork", il clamoroso "Fight club", il fantastico "Seven", il meraviglioso e umanissimo "Benjamin Button", e infine il mio preferito, "Zodiac", film che adoro e che è una delle mie pellicole di culto. Tutti film che tracciano il percorso artistico di un vero Maestro. Ho detto di prediligere "Zodiac" perchè qui forse più che altrove emerge una sua inclinazione a preferire il buio, la notte, l'oscurità, intesi sia in senso letterale, sia come emblema delle debolezze dell'animo umano nel momento in cui quest'ultimo cede a derive di personalità disturbate o di anime perdute. Va detto che, nonostante le sequenze violente non manchino di certo, il peso autoriale di "Millennium" si contempera con la sua chiave "perversa" e la sua anima oscura, generando una nube di diffusa sapiente cupezza che avvolge lo spettatore. Un carico di ambiguo malessere che condiziona le vite dei personaggi, esseri spesso irrisolti e non pacificati. Si parte con un giornalista d'assalto che perde una causa con un industriale al quale è costretto a corrispondere una grossa somma a titolo di risarcimento per diffamazione. Quest'uomo, che attraversa dunque un periodo piuttosto precario, viene incaricato da un anziano capitano d'industria in pensione di indagare sulla scomparsa della adorata nipote. Ed è così che al nostro giornalista detective si apre un mondo, popolato da una dinastia infinita di parenti, per lo più ognuno isolato dall'altro, una rete famigliare vagamente complicata da tenere sotto controllo per lo spettatore. Se a questo aggiungiamo l'entrata in scena di Lisbeth, una giovane instabile che per sbarcare il lunario fa l'investigatrice, il quadro è completo. Gli snodi narrativi, i tasselli che via via si aggiungono, i dettagli che si scoprono, fanno sì che i 160 minuti siano densi di avvenimenti e di sorprese, quanto basta a rendere la visione appassionante. Interessante il cast, che vado ad approfondire. Daniel Craig, famoso per quella sua "faccia un pò così", forse non è attore finissimo in senso tradizionale, ma sta dimostrando, film dopo film, che per i ruoli da duro e solitario in chiave action, oggi lui è il non plus ultra. Rooney Mara, dopo questa clamorosa performance, è diventata il volto del momento, e in giro non si parla che di lei. Effettivamente la sua prova è formidabile, fornendo carne e sangue a questa punk ingrugnita, nervosa e sensibile. E, almeno per quanto mi riguarda, riesce ad annullare la performance di Noomy Rapace che, solo adesso e col senno di poi, ci appare a suo tempo piuttosto sopravvalutata. Non si può non segnalare quel monumento alla recitazione che è il mitico Cristopher Plummer, uno di quei vecchi attori classici che ancora non hanno trovato degni eredi (e a lui associerei anche John Hurt). Segnalazione doverosa anche per la sempre bellissima Robin Wright. Ma a mio modesto avviso ciò che da sola vale il prezzo del biglietto è una grandiosa performance di Stellan Skarsgard, attore di provata esperienza ma che qui raggiunge vette impressionanti. Mi riferisco in particolare ad una lunga sequenza in cui egli dialoga con Craig (più che un dialogo una tortura, in realtà): ebbene, per me che amo gli attori, osservarne lo sguardo e la postura durante quella scena è un autentico spettacolo. Accennavo ad una superiorità di Rooney Mara rispetto alla Rapace. Io estenderei il discorso a Daniel Craig che un Michael Nykvist se lo mangia a colazione. Ma poi alla fine è tutto il film che batte di non poche lunghezze l'originale svedese. Prima di concludere vorrei replicare a chi ha accusato Fincher di lasciar trasparire una certa dose di compiacimento nel (diciamo così) pescare nel torbido, specialmente quando si parla di violenza sul corpo delle donne. Dissento. Nonostante si indulga in dettagli macabro-mistici, in realtà a fronte di tematiche cupe è sempre presente uno stile pop che smussa gli angoli evitando suggestioni "pericolose". E poi non dobbiamo dimenticare che esistono fior di capolavori che fanno dell'intrigo "cupo-malato" il loro punto di forza ("Il silenzio degli innocenti" in primis): il cinema è anche questo. Ammetto, in ogni caso, che non si tratta di un film per tutti. Ne consiglio comunque la visione, aggiungendo l'invito a farsi catturare dall'anima nera del racconto. In questo vi saranno di grande aiuto i soavi rintocchi elettronici di una fondamentale colonna sonora. Anzi, siccome nelle ore in cui scrivo sta impazzando sui media nazionali il Festival della Canzone, mi esprimerò in stile Sanremo: "Dirige l'orchestra il maestro Trent Reznor".
Voto: 10
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