Regia di David Fincher vedi scheda film
I corpi si contorcono e urlano, neri, plastici, si respingono e si attraggono, si evolvono in forme nuove, piacere e dolore si fondono, i Led Zeppelin in versione industrial scuotono le viscere di chi guarda, nel videoclip di apertura Fincher dichiara la sua estetica e ci mostra come sia possibile superare le distanze che ci dividono dalle cose per entrarci dentro e aprire la mente a nuove modalità di visione e percezione. Perché lo sguardo di Fincher è attratto dalle forme degli oggetti, dei corpi, delle architetture, dei paesaggi. E dal nero. E dall’oscurità che poi si trasforma nel bianco invernale delle lande svedesi, dove si compie un’indagine per scoprire cosa sia successo ad una ragazza, nipote di un ricco industriale, scomparsa molti anni prima.
Ed è l’indagine in quanto metodo, capacità di vedere e collegare, ad interessare il regista (come accadeva in Zodiac). Indagine in cui si amalgamano, in un nuovo ibrido investigativo, i supporti cartacei (i libri, i diari, le fotografie) e quelli tecnologici (videocamere, portatili, cellullari). Una parte considerevole del film ha come protagoniste strumentazioni elettroniche (con i prodotti della Apple che diventano parte integrante della storia) attraverso le quali si analizzano i dati e si cercano connessioni.
Poi c’è il male e le sue manifestazioni. Il sadismo e la tortura, nelle sue incarnazioni storiche (il nazismo) e umane (Lisbeth e il suo tutore, che in uno scambio di ruoli si sodomizzano a vicenda). Nel loro disturbante rapporto il sesso diventa strumento di sottomissione maschile e di vendetta femminile. I corpi come ibridi, quello di Lisbeth coperto di piercing e tatuaggi, emblema cyber-punk e nichilista, quello del suo tutore, sodomizzato da un dildo di ferro, tatuato per punizione, ripreso da un’inquadratura che ci ricorda quella dei corpi martoriati negli omicidi di Seven. E a differenza di un’altra pellicola di Fincher, Fight Club, in cui si analizzava il masochismo come forma di anarchia e rivolta contro il mondo, qui è il suo opposto, il sadismo, a disegnare le traiettorie della mente umana, che non si ribella, ma soccombe alle proprie pulsioni istintuali. E speculare del protagonista di Fight Club è proprio Lisbeth, che attraverso comportamenti aggressivi e antisociali, crea barriere e distanze attraverso le quali proteggersi; lei è una sadica, ma la sua non è una rivolta contro l’ordine delle cose per cambiarlo, anche se così potrebbe sembrare, ma solo una forma di difesa da esso, forse la più estrema.
Accompagnate dalla musica di Trent Raznor e Atticus Ross, le immagini finiscono per ricomporre le parti del mistero, a rimanere distanti invece sono le anime dei due protagonisti e anche se attraverso il sesso, finiscono, in alcuni momenti per congiungersi, i loro mondi interiori restano paralleli, c’è attrazione ma non unione. E quando nei sentimenti confusi e oscuri di Lisbeth, per un attimo, si intravede la luce di una possibile felicità, questa viene subito spenta.
Perché il nichilismo è una disciplina.
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