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Millennium. Uomini che odiano le donne

Regia di David Fincher vedi scheda film

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La recensione su Millennium. Uomini che odiano le donne

di OGM
8 stelle

Di fronte a  una pellicola tratta da un bestseller mondiale siamo portati ad aspettarci grandi cose: che ci entusiasmi e ci sorprenda, per competere con l’enorme successo riscosso dal libro. Invece questo Millennium: Uomini che odiano le donne si presenta come un film “normale”. Un thriller a sfondo informatico con elementi di sadismo: un noir dei nostri giorni, in cui l’atmosfera ovattata dei drammi nordici si perde in una convenzionale suspense da action movie. Un instant remake che molti giudicheranno inutile, e che magari non convincerà neppure chi non ha visto l’originale. Un'opera che risulterebbe irrimediabilmente tiepida, se non fosse per quella presenza femminile: la vera protagonista della storia, quella ragazza col drago tatuato del titolo internazionale, dall’anima profonda come un abisso e nera come la pece. Una giovane hacker che incarna una genialità “diversa”, eppure sommessa, cinica ma discreta, crudele solo se provocata. Una personalità che è intrigante leggere fra le righe di una vicenda prettamente maschile, dominata da grandi uomini d’affari, cronisti d’assalto ed ex nazisti, nel quale le donne sono per lo più vittime silenti ed invisibili. Prima su tutte, l’adolescente Harriet, scomparsa nulla quarant’anni fa: un caschetto biondo montato su un corpo esile ed un volto anonimo, un profilo sin troppo evanescente per poter alimentare la fitta sostanza del mistero. Harriet è solo un fantasma,  come lo sono gli altri membri della sua famiglia, che vivono sparpagliati e distanti, chiusi in un rifiuto di comunicare che potrebbe sembrare di stampo bergamaniano, se solo non nascesse da un contesto morale così desolatamente vuoto. La cyperpunk Lisbeth Salandra è davvero l’unico personaggio della storia: in un certo senso, è l’unica eroina - per quanto poco appariscente – perché è la sola ad affrontare la vita come un’avventura. La sua sfida contro il mondo è lanciata dal livello del suolo, e si disputa con le viscere e col sangue: nulla a che vedere con le battaglie giudiziarie del giornalista Mikael Blomkvist ed i segreti di famiglia della dinastia imprenditoriale dei Vanger. I nemici contro cui Lisbeth lotta a mani nude si chiamano emarginazione, povertà, malattia, tossicodipendenza, abusi sessuali. Sono mali che si imprimono dolorosamente nella carne, come i piercing e i tatuaggi di cui è cosparsa la sua pelle. I suoi occhi, truccati di scuro, hanno la cerchiatura livida del pianto trattenuto.   È l’unico essere, in questa vicenda, a combattere senza melodramma, a soffrire senza arrivare a  costituire un caso. Degli eventi della vita di Harriet e del suo entourage sono pieni gli archivi: articoli, fotografie ed altri documenti hanno conservato la memoria dei loro spostamenti, un  piccolo reportage amatoriale ha persino colto i piccoli mutamenti nell’espressione della ragazza, negli attimi immediatamente precedenti la sua sparizione.  Di Lisbeth, invece, non esistono immagini: per professione è il segugio che insegue la preda senza farsi notare, e il suo passare inosservata è, insieme, una vocazione e un destino. Non vuole attenzione, e non la ottiene, a parte quella morbosa del suo tutore legale. La sua figura  attraversa questo film - dall’estetica patinata, ma involontariamente un po’ opaca - come un’ombra tracciata con il carboncino: è il contraltare dark all’ipocrisia, un’icona sociale camuffata da un’impenetrabile scorza di individualismo. Lisbeth è uno spirito fondamentalmente ribelle, eppure rigidamente disciplinato: un nucleo di giovane durezza intorno a cui si addensano la verità e la rabbia, mentre tutto il resto si dissolve nella provvisorietà dell’apparenza.  La regia di David Fincher ci racconta, con la dovuta diligenza, una storia che molti già conoscono, ma non è questo l’obiettivo principale del suo impegno: egli vuole anzitutto ritrarre lei, senza violare la sua naturale ritrosia a mettersi in mostra. La vuole porre al centro della scena senza accendere i riflettori, e senza che il discorso si interrompa. La descrizione di un carattere, con tutti i suoi significati aggiunti, finisce così per intero nei meandri, poco illuminati, di un sottotesto appena percettibile, che è, nello stesso tempo, retroscena del giallo e  bassofondo della vita.

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