Regia di Alejandro Amenábar vedi scheda film
Il discorso cinematografico di Amenábar inizia con la voglia di riprendere: con la storia di un film irrealizzato, in cui l’impulso di catturare la realtà prevale sulla studiata volontà di raccontare e costruire un’illusione. La registrazione su pellicola come forma di dominio e di possesso sconquassa il progetto artistico, e minaccia di distruggere fisicamente anche il soggetto filmato. In questo corto, esplicitamente ispirato a L’occhio che uccide, Bosco – interpretato dallo stesso Amenábar - è il cineoperatore che usa la videocamera come lo strumento di un voyeurismo assassino; Silvia, invece, è la regista che, anziché dirigere la recitazioni delle attrici, le manipola psicologicamente per trasformarle nei rispettivi personaggi. Il primo agisce sui corpi, la seconda sulle anime; e per nessuno dei due la scena è una mera parentesi di finzione. Per entrambi è la fase di un’autentica trasformazione, che coglie gli interpreti nel momento in cui vengono violentemente sottratti alla loro normalità, o, magari, alla loro stessa vita. Il film diventa così il documento di un’azione concreta, il cui autore ha modificato, in maniera decisiva e magari irreversibile, la materia vivente. Aménabar gira, a soli vent’anni, quello che a prima vista sembra il tipico cortometraggio scolastico, ambientato in un liceo, ed avente come protagonisti quattro studenti che vogliono girare un filmetto horror, però non si intendono e discutono in continuazione. A ben vedere, questo Himenóptero è invece una complessa e provocatoria riflessione sull’essenza dell’eros che confluisce nella settima arte, e che non è – forse mai – una nobile e rispettosa aspirazione a conoscere, bensì un vorace e bieco desiderio di imprimere, sul mondo, la traccia indelebile del proprio passaggio.
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