Regia di Kevin Smith vedi scheda film
Il giovane e promettente Kevib Smith è cresciuto e francamente fa paura. Red State è uno dei film più terrificanti in cui mi è capitato recentemente di imbattermi. Capiamoci, non tratta di serial killer e di efferatezze da torture porn, ma il suo campo d’azione è la natura umana, raggelante, cieca e disperata. Immergendo le proprie solide e profonde radici narrative in un terreno madido di fanatismo e follia, Red State, si nutre di quel lato oscuro dell’essere umano, che risulta tanto evidente, quanto ci si avvicina al nervo scoperto delle credenze personali e dei culti religiosi. Decidendo di narrare le vicende di una setta di fanatici cristiani, Smith, ci fa lentamente ed inconsapevolmente scivolare in un universo di delirio e sangue, pazzia e polvere da sparo, da cui sarà difficile uscire illesi. Affidandosi ad un paio di riusciti colpi di scena, Red State non risparmia nessuno, gettandoci a capofitto tra le spire di un delirio di morte, in cui gli innocenti sono destinati a soccombere. Le stesse forze dell’ordine non rappresentano una salvezza o un modello da seguire, ma sono semplicemente parte attiva e partecipe di un massacro annunciato che spazza via tutta la misericordia e la compassione rimaste. Peccato che la pellicola non si fermi a cinque minuti dalla conclusione, suggerendo un finale divino, che resta semplicemente nell’aria, come un’eco, un grido di aiuto, un desiderio inascoltato. Poco importa, il pragmatismo finale e soprattutto l’ultima battuta del film, restano altrettanto memorabili, impietosa chiosa sull’umano sentire, che suggella per sempre con uno sberleffo, inutili fiumi di parole prive di significato. Cast meravigliosamente in parte, tra cui spiccano un ritrovato e serissimo John Goodman, il terrificante ed ipnotico Michael Parks e infine una raccapricciante Melissa Leo, vero totem di fanatico furore e materna cecità. A guardare Red State sembrano lontani anni luce i divertenti e divertiti tempi di Clerks, ma quello di Kevin Smith è un triplo salto mortale in avanti, dimostrando di padroneggiare con superba maturità una materia spinosa e soprattutto capace ancora una volta di incantare con la propria scrittura, questa volta non basandosi su fulminanti scambi di battute, ma affidandosi con fiducia alla potenza espressiva di un fucile fumante, chiamato cinema.
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