Regia di Leonardo Pieraccioni vedi scheda film
Dopo il prologo con la De Filippi negli studi di C’è posta per te, il fondo dovrebbe essere raggiunto. Ma Pieraccioni scava, trovando il distillato di quel maschilismo intriso di omofobia retrograda da sempre latente nelle sue pellicole. La litania narrativa è la solita: Benedetto, sfigato con (ormai insopportabile) accento toscano, incontra la bellona straniera. Fine. Il buon Leonardo, questa volta, rinuncia persino a ingredienti essenziali: la storia è il soggetto e i personaggi vagano per lo Stivale con il solo obiettivo, puntualmente deluso, di far ridere. Nemmeno un barlume di costruzione erotica o sentimentale a muovere una vicenda che vorrebbe poggiare le basi sull’inestricabile labirinto tra amore e destino. Restano personaggi vuoti, legati alla contemporaneità da sterili riferimenti a Facebook ma svincolati da quest’ultima ontologicamente (come vive Leonardo, che gira l’Italia da disoccupato in tempo di crisi?) o per mezzo di un secco rifiuto all’evoluzione (sociale) della specie: la donna tradita è comunque antipatica, mentre quando il cornuto è il maschio, la parola “puttana” viene urlata in coro dieci volte. «Se la fatica è più del gusto, molla la fica e passa al lambrusco»: Papaleo ci offre la sintesi cerebrale di un film che fa rivalutare i cinepanettoni, con cui condivide volgarità, camei scult (il rimpianto Ceccherini e la Bouchet) e product placement (inascoltabile lo “spot” della Honda Jazz Hybrid) ma dei quali non possiede il brio.
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