Regia di Jonathan Levine vedi scheda film
Schwannoma neurofibrosarcoma. “Più il nome è lungo, più la forma è grave”, dice qualcuno nel film. Ciononostante Will Reiser (alias Adam Lerner) guarisce, e scrive questa sceneggiatura. Dedicata all’angoscia di avere 50 probabilità di guarire, e 50 probabilità di non farcela. Una prospettiva inquietante, soprattutto se hai appena ventisette anni. Il regista Jonathan Levine mette in scena una storia vera, palesemente romanzata, però raccontata in prima persona da chi l’ha vissuta sulla propria pelle. Il risultato è una commedia drammatica, in cui il dolore è guardato, retrospettivamente, come un’avventura che sfianca l’anima e il corpo, però insegna molte cose. Ad esempio, che la sofferenza è il terreno fangoso che fa appassire l’amore falso, e sbocciare quello sincero. Che un rapporto d’amicizia può presentare un volto sgangherato e burlone, eppure essere fondato su un sentimento forte e profondo. Per Adam la malattia è un faticoso percorso di rivelazione; piastrellato, in fondo, di verità piuttosto scontate. Ma messe insieme con garbo, e con una punta di humour che richiama il sapore salato della vita. E ci rammenta che la paura si può affrontare anche con la luce di un sorriso, con l’energia di una battuta sferzante e di una bravata da ragazzaccio. Adam è l’adulto che, di fronte ad incubo di proporzioni incommensurabili, decide, con inconsapevole saggezza, di ritornare piccolo. Insieme a lui, anche il mondo, come per incanto, riprende sembianze infantili, come quella sua donna di cui vede improvvisamente prorompere l’immaturità adolescenziale, o quel Kyle che, per aiutarlo e fargli compagnia, lo tratta con un piglio cameratesco che ricorda tanto la spensierata complicità tra studenti o commilitoni. Del gioco fanno parte anche Alan e Mitch, i due uomini maturi con cui Adam condivide le sedute di chemioterapia, e che, in segno di benvenuto, gli offrono caramelle alla marijuana. La protagonista assoluta è però Katherine, quella dottoressa in miniatura, che è più giovane di lui, visibilmente inesperta, eppure gli viene assegnata dall’ospedale come assistente psicologica. Una bambolina tenera e impacciata che gli porgerà la chiave della felicità. Questa potrebbe sembrare una favola moderna, in cui l’orco è il cancro, e la fatina una giovane specializzanda che deve scrivere una tesi sui pazienti oncologici; lo sarebbe, se solo fosse rivestita dell’anestetizzante incanto della fantasia. Qui, invece, si sta sempre svegli, e il male si sente davvero, come l’umiliazione di vedere, nello specchio, la propria immagine livida e smunta, oppure il brivido di un dito che affonda nel solco umido e molle di una ferita. Will Reiser beffardamente ci schiaffeggia, con queste sensazioni, come la sorte ha fatto con lui. E ci restituisce la versione ripulita, però autentica, e popolare, ma non troppo, di un’esperienza che gli ha lasciato molto da dimenticare, ma anche molto da ricordare: quest’ultima è la parte su cui il film, senza retorica, si vuole soffermare. Per testimoniare come, da quel tunnel, si possa venir fuori: con la necessaria dose di fortuna, e con la forza dell’accettazione: ossia la semplicità di chi, nel bisogno, si affida serenamente alla disponibilità del prossimo, e, soprattutto, all’imperscrutabile volontà del destino.
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