Regia di Andrew Dominik vedi scheda film
Andrew Dominik è un regista manierista: ricombina forme conosciute, le carica sino allo stereotipo, scarnifica (o aumenta) i personaggi sino alla caricatura. È da qui, da queste figure raccontate all’infinito, da questi miti riconosciuti, da questi vampiri nel cui sangue circolano secoli di letteratura e decenni di riciclo, da queste copie di copie di copie che nasce il suo cinema. Tutto è saturo, frontale, sfacciato in Cogan. Killing Them Softly, intricata storia d’ordinanza noir. Ray Liotta fa il calco minore di se stesso; una dose d’eroina scatena l’automatica Heroin dei Velvet Underground; le allucinazioni lisergiche sono quelle deformazioni ottiche con cui il cinema degli anni 70 ci ha estenuato; i ralenti che estetizzano la violenza sono l’esasperazione grafica di quel che ci propinano Hong Kong e Hollywood da 30 anni; l’allegoria che stringe criminalità e politica economica, gioco d’azzardo e speculazione finanziaria è ripetuta allo sfinimento, come fosse un segno d’interpunzione. Dominik (come l’ultima, incompresa giovinezza di Coppola) non guarda alla realtà, ma alle sue abituali forme di rappresentazione, ai simboli in cui si concretizza, alle metafore con cui cerca di spiegarsi. E allora (come nel Kitano di Outrage Beyond) il caos del mondo, nell’epoca dello spettacolo e della virtualità (si finge, si mente, si rimanda, si mette in scena sempre), non si scioglie, non si comprende, non trova una fine, un’ipotesi di complotto convincente, una causa primaria. Solo una facile morale da B movie «L’America non è un Paese: è un business». Dominik trasforma il noir in un teatro dell’assurdo prossimo più a Pinter che a Tarantino, il cinema nella statica scena psichica di un Paese (i personaggi sono proiezioni l’uno dell’altro), la metafora della crisi nella disperata satira di se stessa. È distillato, coerente, lucido nichilismo: prendere o lasciare.
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