Regia di Andrew Dominik vedi scheda film
Sta a vedere se Andrew Dominik si è stancato del genere noir come esso è universalmente noto, o voglia raggomitolarsi cinico e privo di redenzione in quella stessa stanchezza per tentare di creare un capolavoro. Probabilmente le due ipotesi non si oppongono l'una con l'altra, anzi, sono le due componenti fondamentali che motorizzano la deformità registica dell'autore, che mira all'atipicità e si riduce alla pellicola che rischia fin troppo di passare senza lasciare traccia. Nella sua storia forzatamente atemporale, in cui però intervengono sfacciate le facce e i volti di Bush, Obama e McCain a riportarci con i piedi per terra, Dominik ha l'intenzione usuratissima di rivedere l'America nei suoi assunti fondamentali, per trarne fuori un canto di violenza e di assurdo che rasenta però, nel riscontro formale, l'indifferenza. Infatti tra ralenti, un montaggio spocchioso e compiaciuto nell'immobilismo delle varie pose nei dialoghi, una sceneggiatura che gira a vuoto senza ipnotizzare come vorrebbe (c'è chi ha parlato di Tarantino, ma proprio non siamo da quelle parti, né il tono è realmente vicino agli schemi del grande Quentin), una sequela di personaggi crudeli per assioma tanto da autoannullarsi nella memoria dello spettatore e una trama che è raccontata in piccoli stralci e poi inframmezzata da quegli stessi dialoghi suddetti (ripetitivi e tanto brillanti da risultare stucchevoli), l'idea che resta è di un film di grande perizia formale, convinto di se stesso, leggiadro nel suo fluire stilistico, ma troppo sincopato per riuscire a coinvolgere davvero. C'è spazio sia per svolazzi e dissolvenze (il dialogo fra eroinomani) sia per rigidità quasi didascaliche, che riprendono Brad Pitt a rifilare la morale sull'America fatta di solitudini e affari e poi staccano sul vuoto improvviso dei titoli di coda; ma la vera chicca sono i titoli di testa, che subito prima di mostrare il cartellone delle elezioni presidenziali americane percorrono un tunnel che sembra affacciarsi su un mondo caotico sull'orlo dell'Apocalisse.
Il vero problema è che non c'è carisma, in questo gelido noir a tinte fosche ma fin troppo "ripulito" per risultare disturbante (gli effetti di straniamento mostrano da vicino il loro calcolo), così come non c'è carisma nel protagonista, che fra uscite di ironia caustica e un controllo quasi spontaneo dell'uso della violenza (vedi l'assassinio rallentato di Liotta), cerca l'ambiguità e trova la faciloneria, mira al fascino ma nega sia una statura eroica, sia una statura anti-eroica, sia una natura insignificante, all'insegna, alla fin fine, di un'inutilità che non prende neanche un attimo. Forse il film dovrebbe funzionare proprio perché appesantisce (o allegerisce?) i soliti sottotesti violenti e disperati di un'America fatta ormai solo da simili storielle (oltre che dagli affari, ricordiamocelo; altro che democrazia e patriottismo obamiani), e dovrebbe funzionare anche in linea con le sue evidenti intenzioni di conglomerare molte delle suggestioni del noir cinematografico (antico e moderno) e farle esplodere in sequenze fin troppo dialogate e sequenze dall'intento "autoriale" e spettacolare al contempo (quale intento nobile), ma manca una femme fatale, in questa storia solo al maschile, e forse proprio quell'ingrediente avrebbe fatto venir meglio la torta, e magari costituire una buona protesi per una pellicola zoppicante che funziona solo a metà e non lascia tracce (oltre che vie d'uscita). Vanno a segno solo alcune trovate narrative (le domande sorgono spesso, e ci si incuriosce su come la storia, alla fine, si concluda), un certo spaesamento costruttivo di certi momenti (che Dominik non sa però tenere granché sotto controllo) e alcuni svolazzi quasi depalmaniani come la fuga dalla rapina iniziale, che segue i volti dei due ladruncoli che corrono in anguste stradine verso futili scappatoie. Sufficiente.
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