Regia di Andrew Dominik vedi scheda film
Obama parla dai televisori dei bar, degli aeroporti, delle case, parla di unità e di un popolo che non esiste. Parla perché è tempo di campagna elettorale (è il 2008), parla perché le belle parole, come quelle di Jefferson tanti anni prima di lui, servono a rincoglionire le persone. A dargli un’illusione in cui credere.
Cogan (Brad Pitt) non le ascolta più queste cose, sa bene che sono i dollari il collante di tutto, che sono gli affari quelli su cui è basata la società americana. E un affare è qualsiasi occasione che hai per guadagnare soldi. Un omicidio vale dai diecimila ai quindicimila dollari e in tempo di crisi la domanda e l’offerta sono come cani rabbiosi che lottano fra loro. Un affare è un pacco di roba ancora da tagliare e vendere. Affari sono le partite a carte e le scommesse. Cade qualsiasi regola morale, qualsiasi forma di legalità. Sono i dollari che stabiliscono la legge e non viceversa.
Andrew Dominik narra con una lentezza oppiacea, i suoi personaggi parlano e agiscono come in un limbo che li isola dal mondo circostante, in una sequenza la macchina da presa è sotto gli effetti dell’eroina, piccoli flash di luce, distacco totale, le note dei velvet underground, nulla ha più importanza del calore della sostanza, in un’altra sequenza i rallentamenti delle immagini, durante un omicidio, diventano estetica della violenza, abusata e ripetuta, Dominik non cerca l’originalità stilistica, copia e utilizza linguaggi visivi derivati da altri, parlando della realtà attraverso la sua rappresentazione filmica. L’azione è minima, sono le parole, i dialoghi (da un romanzo di George V. Higgins) a mandare avanti la narrazione, pieni di volgarità e umorismo da strada, un flusso verbale ininterrotto, in attesa della morte, dell’arresto o di una delle mille maniere in cui si può perdere.
Perché gli Stati Uniti sembrano più di ogni altra cosa il contrario del sogno che continuano a spacciare.
La vittoria è per pochissimi, la sconfitta alla portata di tutti.
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