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Cogan - Killing Them Softly

Regia di Andrew Dominik vedi scheda film

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La recensione su Cogan - Killing Them Softly

di scapigliato
10 stelle

La vera colonna sonora di Cogan non è Johnny Cash, ma sono le notizie televisive e radiofoniche che raccontano di un’America in crisi economica e del duello elettorale tra McCain e Obama. L’originale di George V. Higgins era ambientato all’epoca della fine di Nixon e dell’arrivo di Gerald Ford alla presidenza. La similitudine con il passaggio W. Bush-Obama non fa una grinza. I tempi sono comunque cambiati. La moda, la comunicazione, le mitologie. Una cosa non è cambiata: l’anima affarista degli Stati Uniti.

Nati per non pagare le tasse agli inglesi, gli USA hanno da sempre impostato la loro identità nazionale, oltre che sulla purezza della razza anglosassone, anche sul mito capitalista – e protestante – del successo economico come segno di salvezza e beatitudine. Dio lo vuole! Nonostante questa palese matrice originaria, l’America si è sempre pubblicizzata come la nazione della libertà, delle grandi opportunità, della tolleranza e della grandezza. Non si può negare che tanti atteggiamenti culturali positivi siano arrivati da oltreoceano, ma è anche vero che abbiamo imparato a nostre spese a convivere con un’ipocrisia a stellestrisce fatta di violenze, soprusi, imperialismi.

Il noir diretto da Andrew Dominik affronta proprio questo. Si arma di bisturi e incide lievemente la carne del corpo americano attraverso la commedia sofisticata, dialoghi brillanti, personaggi pazzeschi che solo un’opera letteraria poteva partorire, e poi infila mani e artigli e rovista con violenza nelle viscere. Per tutti saranno solo dolori. Il dramma della crisi e della perdita di un proprio posto nel mondo, nel paese, negli USA, sono il contraltare grigio e livido di un’euforia effimera appagata dall’idea di successo. Tra un lungo dialogo, verboso e complesso, e una scena d’azione, violenta e disperata, il regista porta avanti la sclerosi moderna della perdizione e lo fa con la solita classe con cui oggi si contraddistinguere insieme a pochi altri – Winding Refn, Duncan Jones, Steve McQueen – nel panorama cinematografico odierno. La sua sensibilità estetica, a volte sopra le righe – come la morte esageratissima di Ray Liotta – porta all’eccesso la visione realista senza scadere nel patetico o nella ficcion più improbabile. Sono storie metropolitane quelle di Cogan, come Chopper, come erano western e terrigne quelle di L’assassinio di Jesse James. A un passo da Malick, dicono, Dominik gioca col genere senza rinnovarlo davvero e senza destrutturarlo a fondo. Piuttosto la sua è un’impresa di variazione sul tema. Il suo noir è classico sotto certi aspetti narrativi, come i personaggi, l’atmosfera, gli ambienti; o motivali, come la rapina e lo sgarro tra delinquenti, ma diventa moderno e acquista modernità nel linguaggio visivo. La set decoration e la fotografia su tutte, e poi i rallenty, queste iperboli del tempo e dello spazio che Peckinpah ha consacrato come veicoli linguistici per la disperazione, la violenza, l’abisso della memoria, l’istantanea di una realtà, di un momento, di un pezzo di carne esploso che può fare “America” più di una bandiera o di una medaglia all’onore.

Se Dominik esagera, e gioca a fare Sergio Leone, lo fa con la consapevolezza che il codice da lui usato sia allineato all’argomento, estremo e spiazzante di una carneficina dettata dallo spirito d’impresa. La forma è il contenuto, mai dimenticarlo. Colpevolizzarlo di estetismo non giova a nessuno. È un grande regista che sta mettendo in fila una serie di capolavori, diversi tra loro per spessore e contenuti, ma tutti urgenti intellettualmente come politicamente e come linguisticamente.

Senza escludere un cast trionfale, con Brad Pitt in gran forma che scimmiotta Marlon Brando – e a cui è affidata la lucida e polemica chiosa finale – , James Gandolfini che commuove tutti con il suo personaggio umanizzato e complesso, e l’outsider Scoot McNairy che conquista il cuore, la regia di Dominik tiene in piedi tutto il film. Le sue scelte visive e la sua straordinaria direzione degli attori in dialoghi perfetti e coraggiosi – chi fa più un dialogo in campo totale? – fanno la differenza, rendendolo un regista unico e riconoscibile.

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