Regia di Adrian Grunberg vedi scheda film
E Mel Gibson, al telefono, fa l’imitazione di Clint Eastwood. Questo thriller di ambientazione centramericana alterna accenti brillanti ed horror, mantenendosi costantemente sul filo dell’iperbole satirica. La location sembra il luogo d’elezione del paradosso: la prigione messicana di El Pueblito, situata presso il confine con gli Stati Uniti, è un paesino di nome e di fatto, in cui i detenuti sono liberi di scegliersi un alloggio, andare al bar o al ristorante, frequentare locali notturni, e persino portare con sé armi. Il cittadino americano Richard Dickson ci finisce dopo essere stato catturato con il ricchissimo bottino di una rapina, puntualmente requisito dagli agenti della polizia di frontiera. Quei soldi diventeranno la posta in gioco di una feroce contesa, con la quale si intersecherà il dramma di un bambino di soli nove anni, figlio di una detenuta: il piccolo è stato preso di mira da Javi, il boss di quel singolare carcere, che è interessato al suo fegato per il trapianto di cui ha urgente bisogno. Cinismo e assurdità si mescolano in una fantasmagoria grottesca, che a tratti si direbbe una parodia dell’action movie, pur essendo intrisa fino in fondo della sua ruvida essenza, con elementi di sadismo e di acrobatica spettacolarità che non sempre sforano nell’umorismo. Le trovate non mancano, e anzi spesso si accumulano in una girandola di colpi di scena, che ingarbuglia l’intreccio e confonde le idee, come in un giallo che si infittisca a suon di correre e inciampare. Per lo spettatore è difficile prendere confidenza con quella realtà aberrante, al contempo ridicola e crudele, del villaggio-galera, in cui tutto è concesso, perfino commettere reati d’ogni genere, dallo spaccio all’omicidio, mentre è assolutamente inammissibile fuggire: ogni tentativo di evasione si paga con la vita. Quel microcosmo è forse un anticipo dell’inferno, in cui la punizione consiste nella convivenza forzata dei criminali con i loro pari, e, soprattutto, con quelli che sono peggio di loro: un vivaio del male, brulicante di vizi, manie, desideri, cattiverie, in cui ogni giudizio pare sospeso, mentre in realtà la pena si sconta poco per volta, impercettibilmente, giorno dopo giorno, tramite il contatto ininterrotto con tutto quel marciume concentrato e stagnante, lo stesso nel quale, un tempo, nel mondo libero, si credeva di poter allegramente sguazzare. L’andamento della storia, le figure dei due protagonisti – il gringo ladro ed il bambino latino – ed il curioso epilogo sembrano voler marcare la sostanziale differenza che intercorre tra il semplice delinquente e la cosiddetta feccia, che è abbondantemente rappresentata nell’universo criminale, pur non esaurendosi affatto in essa. Il discorso attraversa a piedi nudi il fango della depravazione, per farsi via via sempre più politicamente scorretto, anche da parte dell’eroe del caso; tuttavia esso sottende una riflessione sottilmente moralistica, che dimentica i codici penali per leggere direttamente nei cuori, ed operare provocatorie distinzioni. Get the Gringo è un incubo colpevolmente autoindotto, però a lieto fine: un’avventura di espiazione dal macabro sorriso, come quello stampato sulla faccia di un clown che si maschera per inseguire un sogno, e poi rimane fatalmente invischiato in una perfida allucinazione.
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