Regia di Gianluca De Serio, Massimiliano De Serio vedi scheda film
Lei sembra non avere nome. Ed anche lui. Sono uno il contrario dell’altra: lei giovane e bella, lui vecchio e malato. Ad accomunarli è unicamente una solitudine senza speranza, che è circondata dall’incomprensione ed in parte dal disprezzo. Esistenze buttate via, con i giorni trascorsi in una discarica abusiva, e le notti passate a bordo di un furgone. Le sette opere di misericordia corporale non potrebbero trovare un terreno più fertile, e allo stesso tempo, più refrattario alla luminosa mitezza del loro concetto, splendente di umanissima santità. L’emarginazione è una condizione aspra e primitiva, una roccia dura e selvaggia, contro cui il messaggio evangelico si frange in violente contraddizioni. Sono quelle scandite dagli episodi sfocati di una storia difficile da raccontare, nella quale più che le azioni, sempre stentate e dolorosamente indistinte, sono i silenzi, le omissioni, gli errori a creare i significati. Bruciare rifiuti tossici per guadagnare qualche soldo. Assumere l’identità di una persona morta, per poter essere qualcuno. Rubare in ospedale, per poter mangiare. Rapire un bambino, per poter esprimere amore, o anche solo per dare una cadenza dolce alla rabbia. I vuoti si colmano malamente, con la smania mortifera di chi non ha conosciuto la fortuna, e crede che la necessità sia un impulso bestiale, paragonabile a quello derivante da un desiderio proibito. Avere bisogno è una porta spalancata sull’inferno. Ed è sul suo limitare che i due personaggi si muovono, con la muta circospezione tipica di chi ha paura di non riuscire a stare al gioco fino in fondo. La loro forza è l’energia trattenuta con cui si resiste al riparo dalla luce. L’ombra è un regno dai contorni ristretti e fragili, che si rischia facilmente di oltrepassare, sulla scia del naturale attaccamento alla vita, e della semplice fiducia nel futuro. Questi sono slanci di positività da cui il racconto si mantiene accuratamente distante, fino a farsi mancare l’aria, tanto da non essere in grado di parlare e ritrovarsi sul punto di soffocare. Il protagonista maschile respira a fatica, attraverso un tubicino infilato nella trachea. Il mondo, tutto intorno, è sporco ed opprimente, come le pile di bidoni arrugginiti o gli effluvi venefici della gomma che brucia. O come l’abitacolo ingombro di oggetti dimenticati, tra cui la ragazza, ogni sera, si stende per dormire. In mezzo ad un’atmosfera aggressiva, ci si sente ridotti a niente. Anche la casa di lui, invasa da cose vecchie e inutili, sembra inadatta ad essere abitata. Eppure lui resta lì dentro, in quel luogo inospitale, dove, un giorno, viene addirittura aggredito e sequestrato. La vicenda narrata in questo film è la penosa battaglia di chi, prigioniero, si adegua docilmente al proprio stato, col risultato di vederlo aggravarsi. Cercare di evadere equivale a varcare l’orlo del baratro, ma rimanere fermi significa continuare ad ammorbare la propria anima con la macabra tristezza della cattività. Sette opere di misericordia ha la pulsazione lenta e pesante della pittura caravaggesca a cui il titolo si ispira: è la poesia negata della sofferenza, ritratta nell’angusta e sovraffollata cornice delle fughe impossibili, e delle estenuate convulsioni che preludono all’eterno castigo.
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