Regia di Pippo Mezzapesa vedi scheda film
Tra il campanilismo di stampo folcloristico e il regionalismo polemico, Pippo Mezzapesa imbocca una via di mezzo che, purtroppo, lascia il tempo che trova. Il suo film è arrabbiato come il meridionalismo militante, però soffuso come il simbolismo poetico. Quest'ultimo, tuttavia, rimane sommerso dalla polvere del suolo, percosso dalle pesanti cadenze del dialetto locale, e svilito dal degrado di un non meglio identificato ambiente del Tarantino, né rurale né metropolitano, un po' marittimo un po' continentale, tra alberi, prati, spiagge, porti e moli e le ciminiere che fumano in lontananza. La stessa madonna randagia del romanzo di Mario Desiati, sullo schermo, diventa un'icona né sacra né selvaggia, un'eterea icona muliebre sbiadita dietro un sorriso languido da posa fotografica. Dovrebbe essere la santa protettrice di un gruppo di ragazzi del posto, e fare da catalizzatore alla loro crescita, impersonando, al tempo stesso, la tentazione carnale e il desiderio inappagato. Però nessuno dei due ruoli le si addice veramente, perché quella fanciulla rimane sempre uguale, avvolta in un incanto mariano preadolescenziale che la rende uniformemente disgiunta dai fatti della vita e da tutti gli eventi del mondo. L'anima del romanzo di formazione si incaglia in questa figura centrale impassibile ed insipida, protagonista di un avvenimento improbabile (il tentato suicidio in abito da sposa con uno spettacolare volo dal tetto di una chiesa) che, pur nel suo fascino fiabesco, non riesce a donare al racconto il beneficio del mistero. Così, per Zazà, Veleno, Natuccio, Cimasa e compagni, per diventare adulti non rimane che affidarsi alle solite drammatiche circostanze, che, secondo tradizione, colpiscono prevalentemente i giovani delle aree depresse del Mezzogiorno: subire il bullismo dei compagni, perdere una partita di calcio, finire in carcere in seguito ad una lite a sfondo passionale, assistere impotenti al male dilagante. La salvezza non viene da una creatura celeste, bensì dal padre avvocato del tuo amico, che ti farà uscire di galera, e dal buon cuore del tuo allenatore, che farà rinviare quell'importante incontro in cui tu potresti essere selezionato come allievo dalla Juventus. Intanto l'amore, sullo sfondo, rimane un'inutile illusione, che fa soffrire senza far veramente maturare (l'accettazione di un abbandono sarebbe molto più istruttiva dell'insulso happy ending proposto nel film). In un'opera intitolata Il paese delle spose infelici ci aspetteremmo di vedere il percorso di un dolore radicato nella terra, scoprendone le origini attraverso le esperienze personali (magari quelle di un gruppo di donne, visto il plurale femminile). Invece quella che ci viene servita è solo la superficiale pennellata di un'idea antica: la vita è difficile, l'essere umano è debole, a volte volgare, ma c'è comunque sempre un po' di dolcezza. Tutto giusto: ma non basta per fare un buon film.
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