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Shame

Regia di Steve McQueen (I) vedi scheda film

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La recensione su Shame

di supadany
9 stelle

Con “Shame”, Steve McQueen conferma di non essere un regista per caso, anzi, compie un ulteriore passo in avanti.

Ancora una volta trova in Micheal Fassbender il protagonista perfetto, ma soprattutto da vita ad un film che, al contrario di “Hunger”, trova una sua universale dimensione autoctona, che va ben oltre la singolarità di improvvisi lampi di genio (che comunque non si fa mancare affatto).

Nella vita, Brandon (Michael Fassebender) sembra avere tutto, almeno agli occhi di chi lo circonda.

In realtà le cose sono ben diverse, e l’arrivo di sua sorella Sissy (Carey Mulligan) le complica, non meno di quanto non faccia la sua collega Marianne (Nicole Beharie) che con lui vorrebbe costruire una storia completa.

 

 

L’inizio è splendido, gestualità ripetute, ambiente asettico, un inseguimento, musica che cresce, stacco … libidine cinefila!

Ma se l’incipit promette (un gran) bene, si tratta solo di un assaggio che porta ad una pietanza imperdibile.

Poche parole e tanti sguardi, un velo di cospicua tristezza contraddistingue la condizione di Brandon, i momenti di catarsi trasportano dentro la storia (tra vortici di sesso e musiche ammorbanti), una scena fortissima da “no amore, sì sesso” appare devastante come poche altre che si son viste al cinema, e non solo di recente, qui ci si cala nella difficoltà del vivere, la società cambia, i problemi pure, e quest’ultimi si fanno più strutturali, praticamente invalicabili.

Un’altra genialità è offerta dal convincente prefinale che fa pensare a due soluzioni, (SPOILER …. morte sotto metro o abbraccio liberatorio …. FINE SPOILER) ed invece ne arriva una terza.

Ma poi è anche, ed ancora, l’estetica a fare la differenza, grazie all’uso degli spazi, con la verticalità che dalla subway approda a lambire le nuvole, con un’atmosfera implosa, ma la freddezza manifesta finisce col rendere ancora più evidenti gli stati d’animo, in tal senso siamo vicini al miracolo sensoriale.

Tutto ciò mentre sui rapporti è insuperabile il tormentato legame “fratello-sorella” e nei parallelismi con “Hunger” si passa dal carcere alla prigionia mentale, che fa ancora più male (perché è propria di tutti), tanto più perché le apparenze ingannano e tolgono qualsiasi possibile aiuto, col corpo che passa dall’essere usato per una battaglia (distruggendolo) al divenire mezzo per lenire, nell’unico modo che Brandon conosce, il dolore che si prova.

Al di là del possibile indice di gradimento individuale, per chi scrive molto alto, trovo che quest’opera possieda grande originalità, capace di provocare apertamente, ma anche di non fermarsi a questo, anzi è solo un’altra apparenza che rende il succo del discorso ancora più prelibato (e Michael Fassebender e Carey Mulligan sono pura meraviglia).

Notevole.

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