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Shame

Regia di Steve McQueen (I) vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Shame

di ed wood
9 stelle

Uno dei film più interessanti degli ultimi tempi. Può respingere, per la tematica e soprattutto per il modo in cui questa viene messa in scena, un po’ come fece “La pianista” di Haneke una decina di anni fa: anche allora, si trattava di perversioni sessuali “osservate” da uno sguardo apparentemente freddo, amorale e impassibile. “La pianista” fu odiato da molti, considerato una furba operazione volta ad inseguire uno scandalo facile. Stesse accuse per “Shame”. Accuse infondate, a mio parere, sia per Haneke sia per McQueen. Ma davvero c’è ancora chi si scandalizza per il sesso mostrato sul grande (e piccolo) schermo? Nel 2013? 40 anni (quaranta) dopo “Ultimo Tango” e “L’impero dei sensi”? E’ curioso (ed inquietante) che molti spettatori non si facciano problemi ad empatizzare con personaggi spregevoli, come banditi, ladri, assassini efferati, boss mafiosi etc…per poi fare fatica ad accettare protagonisti erotomani che mai farebbero del male ad anima viva! :-D Fatta questa premessa, bisogna anzitutto elogiare McQueen per il modo rigoroso e “teorico” con cui inquadra la questione del sesso. Il mondo in cui vive il protagonista Brandon costituisce una situazione “ideale” (per quanto attingente a piene mani dalla realtà di oggigiorno): l’idea è quella di un mondo in cui il sesso viene prima di ogni altra cosa (relazioni, affetti, amicizia, famiglia, lavoro etc…). Brandon vive nella città delle città, quella New York che “non dorme mai”, lavora nel Financial District (dove c’è Wall Street, per intenderci, la patria degli “white collars”), guadagna dei bei soldi, vive in un bell’appartamento, frequenta locali chic, ed essendo anche un bell’uomo, rimorchia senza problemi le bionde più spettacolari della Grande Mela. Brandon rappresenta simbolicamente una situazione di privilegio, da tutti i punti di vista: non gli manca niente e in tanti invidierebbero la sua condizione. Per Brandon, il sesso è una questione puramente personale; un vizio qualunque, come fumare un pacchetto di sigarette al giorno. Che si tratti di masturbazione o prostitute o incontri occasionali, cambia poco: la sua routine prosegue senza intoppi. Ma non appena si paventa la vaga ipotesi di una relazione (con una collega), Brandon fa cilecca. Per superare la defaillance, basterà tuttavia levare di torno ogni componente emotiva e sentimentale per tornare al consueto tran-tran, tuttalpiù sostituendo la solita bionda con un uomo rimorchiato in un locale gay o lanciandosi in uno sfiancante rapporto a tre, tanto per variare il menu e combattere la noia. Per restituire allo spettatore questo mondo sesso-centrico, McQueen lavora scientificamente di ellissi: isola gli amplessi riprendendoli come atti meccanici, privi di coinvolgimento passionale, tagliando fuori ogni aspetto romantico e ribadendo spesso la situazione di “privilegio” (la pletorica, esibizionistica e volutamente “tamarra” immagine della scopata contro il vetro della finestra, affacciata sulla città; le donne esageratamente belle ed ammiccanti): nell’universo di “Shame”, il sesso è come l’acqua. Lo sguardo estetizzante, la perfezione formale cercata e trovata e, soprattutto, il montaggio “tirannico” ingabbiano Brandon nella sua prigione dorata, nel suo paradiso artificiale, lo castigano nel suo vizio, gli tolgono il respiro, svuotano di senso ogni suo gesto, frustrano la sua rabbia repressa (anche lo splendido carrello-sequenza che accompagna Brandon a fare jogging, mentre sua sorella è a letto col capo, non comunica affatto un senso di evasione, ma rimane conchiuso/intrappolato nella NY-prigione). Anche la struttura narrativa, con incipit e chiusa praticamente identici, sottolinea l’ineluttabilità di questa condizione. Ma se questo può apparire come un atteggiamento cinico da parte del regista inglese, in realtà non lo è affatto. Andrò forse controcorrente, ma ritengo davvero che “Shame” sia un film morale, addirittura quasi moralista. A conti fatti, può essere letto, in maniera ben più semplice di quanto non si pensi, come una ferma condanna dell’edonismo imperante nella nostra epoca. McQueen ha voluto rappresentare il senso di solitudine, apatia, egocentrismo, schiavitù e spersonalizzazione, scaturito da un mondo ideale/reale dove il sesso è sempre slegato dai sentimenti. Non a caso, il titolo del film (“Vergogna”) pare suggerire proprio questa dimensione morale: la vergogna di scoprirsi “sex-addicted”. L’unico momento di crudeltà, sorretta da uno humour tipicamente inglese, in cui McQueen si diverte a sbeffeggiare Brandon è la scena della cena con la collega, dove un cameriere petulante impedisce il dialogo fra i due (impossibili) amanti. Per il resto, dietro a tanta apparente freddezza, si cela (congelata) una pietas destinata ad esplodere nel discutibile finale. Ci sono alcune cose che non tornano in questo film: il finale appunto. La disperazione di Brandon che deve affrontare il dolore e la colpa per il tentativo di suicidio della sorella viene prima smussata dall’ingresso della colonna sonora, poi lasciata al libero pianto del protagonista: una scelta poco rigorosa, che denota senz’altro una maturità non ancora raggiunta da McQueen. Inoltre, questa dialettica fra reale ed ideale, fra concretezza ed astrazione, fra psicologia e metafora, presenta qualche intoppo. Infine una questione relativa alla sceneggiatura: il personaggio della sorella, Sissy, funge da elemento destabilizzatore della coscienza di Brandon, ma avrebbe meritato uno sviluppo più corposo. Ma sono difetti che il giovane McQueen limerà con l’esperienza; almeno questo è ciò che ci si augura, poiché il talento non manca ed è sulla buona strada per diventare uno degli autori di punta del cinema contemporaneo, forse un nuovo inventore di forme. In conclusione, applausi a scena aperta per il grande Fassbender, giovane genio della recitazione, autore qui di una performance memorabile: il suo Brandon, personaggio di straordinario spessore tragico, è già una icona dei nostri tempi.

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