Regia di Steve McQueen (I) vedi scheda film
C’è poco da girarci intorno. Due sono le prove più importanti per un attore: il monologo e le scene di nudo. Applausi meritati per Michael Fassbender che unisce fisicità e introspezione per rendere al meglio il suo Brandon nato dall’autorialità moderna e originale di Steve McQueen. La fisicità, neanche a dirlo, è tutta in quel corpo nervoso, definito e magrolino, tutto nervi ed impeto sessuale, in cui il notevole membro dell’attore – nelle poche scene di nudo integrale e frontale – è il baricentro dell’intero personaggio, mentre la testa, il viso, il cervello sono solo periferie destinate al fuoricampo. Del corpo dell’attore, il regista predilige i movimenti isterici, compulsivi, quei movimenti pelvici che flettono lo scheletro di Fassbender e i suoi muscoli all’unisono. Fisico innervato dall’ossessione/compulsione per l’atto sessuale, che domina – anche se a volte solo insognato o percepito solo in frammenti di montaggio sincopato – tutto il film, il suo centro, il suo karma narrativo. L’introspezione sta tutta invece, nei molti primi piani, che mutilano l’attore del resto del corpo, pene compreso – ...e comprese. Primi piani che toccano il massimo del melodramma durante l’amplesso a tre, con due belle donne lesbo-bisessuali. La mdp si fissa sul viso di Fassbender per registrarne l’orgasmo, ma ne filma invece lo sconcerto, la paura, la perdizione. Un’introspezione che gela l’intero processo narrativo del film, congelando appunto ogni svolta narrativa. Difatti, il coraggio voyeuristico delle prime scene si stempera lungo l’arco della narrazione dove la monotonia e la digressione quasi anti-narrative conducono il protagonista al cilmax finale, passando per una deriva omosessuale, una pseudo-sadomaso – che per chi scrive è la scena che fa l’intero film: il tentativo di sedurre una ragazza al bar già sapendo che il suo tipo gli avrebbe fracassato il muso – e infine l’orgia con le due donne d’alto bordo in cui si celebra quello che possiamo ben definire il dramma maschile, e quindi tutto americano, dell’uomo virile. La tragedia di un orgasmo, per cui, come è noto, chi non sparge sperma può solo spargere sangue. Ed è ciò che infatti accade.
Non confondete le performance sessuali del nostro protagonista, tra l’altro molto circoscritte, per un’esuberanza sessuale senza pari. La sua è una sessualità sclerotizzata, in cui non vince il sesso, il corpo, ma soltanto la loro sterile proiezione. Fondamentale in questo senso la scena nella stanza d’albergo dove Fassbender non riesce ad avere un’erezione con la donna nera di cui s’era invaghito, dovendo chiamare una prostituta per poter soddisfarsi completamente, riproducendo tra l’altro una fantasia erotica vista fare in precedenza. Ci troviamo quindi davanti alla messa in scena di un dramma priapesco, dove Fassbender è un uomo complesso e represso che non riesce a vivere il suo corpo come vorrebbe e lo sperma che sparge è solo un isterismo, tant’è che sarà il sangue a scorrere, proprio sul finale, colpendo quel candido personaggio per il quale non riusciamo a fingere distacco emotivo, che è la sorella del protagonista, una bravissima e commovente Carey Mulligan.
Dramma tutto al maschile, tragedia spermica, indagine devirilizzata sull’erezione, dove il membro sessuale maschile è al tempo stesso scettro del potere, indicatore di socialità, feticcio di casta, ma anche turba solitaria, totem isolazionista. Senza demonizzare la masturbazione né il sesso occasionale, che sono momenti importantissimi della più importante delle esperienze sensibili dell’uomo, ovvero l’atto sessuale, il film punta il dito, anche proprio formalmente, sulla monotonia, la fissità, l’inconcludenza della vita falsamente ipersessuale del protagonista, che è in verità disperatamente vuota e onanista – questa in accezione negativa. Inquadrature molto più lunghe del tempo di rappresentazione normale, macchina fissa su lunghi dialoghi, i molti silenzi, gli scarsi movimenti di macchina, ne sono tutti l’indice linguistico.
Così la masturbazione non è più il piacere che è, non è più l’atto virile per antonomasia, con cui prima il bambino, poi l’adolescente, il ragazzo e infine l’uomo “misurano” il mondo e sfidano l’altro da sé, ovvero gli altri maschi, bensì diventa in Shame (disonore, onta, peccato, vergogna e pudore), l’atto con cui privarsi del piacere, condiviso o no, del sesso. L’Uomo Totemico, quello priapesco, quello primitivo, quello primigenio, faunico, a cui tutti consapevoli o no tendiamo idealizzando misure ed erezioni, diventa per McQueen l’Uomo anti-totemico, per cui il membro è solo un’appendice che ciondola tra una coscia e l’altra durante il rituale mattutino della sveglia-segreteria telefonica-doccia con cui simbolicamente Fassbender introduce la monomania patologica del suo personaggio. Certo, non è un film di Bob Clark, ma è sintomatico di questa riflessione il fatto che non è visibile nessuna erezione lungo tutto l’arco del film che, non dimentichiamolo, è un’erotomachia.
Anche il finale sembra moralizzare l’impeto trasgressivo ed erotomane del personaggio, ma è solo un abbaglio. McQueen non demonizza il sesso, né la masturbazione, né la frenesia sessuale di Fassbender, ma ci sveglia a suon di sberle sull’importanza delle piccole cose, come l’amore per una sorella, gli amici, ed una ricchezza interiore che non può esaurirsi in un video porno o in un girone lussurioso notturno. Un finale un po’ ricattatorio, facilmente confondibile come moralizzatore, in realtà ci trascina di peso nel più banale e scontato incontro con la dura e pura realtà. Quella realtà che il personaggio di Fassbender aveva perso di vista, pur essendo sulla strada giusta, quella della libertà sessuale, affrancato dalla menzogna dell’amore coniugale, la strada dell’autonomia affettiva e della curiosità mai doma per il piacere, per la carne, per la propria fisicità. Citare un passaggio di Faulkner, può sembrare fuori luogo, ma letto il giorno stesso della visione di Shame, può aprire non pochi interrogativi: “La Rispettabilità. È lei la causa. Ho scoperto che è l’ozio che coltiva tutte le nostre virtù, le nostre qualità più sopportabili: la contemplazione, l’equanimità, la pigrizia, il lasciare in pace la gente; la buona digestione mentale e fisica: la saggezza di concentrarsi nei piaceri materiali – mangiare, evacuare, fornicare e starsene sdraiati al sole – dei quali non v’è di meglio, nulla di altrettanto bello, nulla a questo mondo se non vivere per il breve tempo in cui si ha in prestito la vita, se non essere vivi e saperlo – oh, sì, è da lei che l’ho imparato; ha segnato anche me per sempre –, nulla, nulla di meglio” [il corsivo è mio, ndr], (William Faulkner, Le palme selvagge [The Wild Palms, 1939], Adelphi, Milano, 1999).
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