Regia di Wong Kar-wai vedi scheda film
Il maestro Yip Man sta godendo, nell’ultimo periodo, di una crescente attenzione da parte dell’industria cinematografica: con risultati felici (il primo film di Wilson Yip del 2008), alterni (“Ip Man – The legend is born” del 2010 e “Ip Man - the final fight” del 2013 di Herman Yau) e “criptici” come in quest’ultima fatica del regista cinese.
L’inizio è senz’altro promettente: lo scontro sotto la pioggia del protagonista Tony Leung contro una moltitudine di avversari mette infatti immediatamente in campo l’idea alla base del film, cioè una maniacale resa “artistica” delle immagini, cullando i particolari quali un movimento marziale di un piede, l’impatto di un pugno o il ruotare di un cappello, e una iperbolicità palese dei combattimenti.
Con il passare dei minuti, però, l’ermetismo scenico e sceneggiativo prende il sopravvento, affogando la storia (comunque nota) in un didascalismo esasperante e, francamente, scarsamente accessibile ad un pubblico occidentale e/o non avvezzo alle discipline filosofiche legate alle arti marziali.
Perché i lunghi dialoghi tra maestri, in interminabili scambi dialettici a base di figure retoriche e aforismi, alcuni sublimi (Maestro: “sai perché la spada ha un fodero ?” – Allievo: “perché il vero scopo della spada non è quello di uccidere ma di restare nascosta” – Maestro: ”la tua spada è troppo affilata, tienila ben nascosta nel fodero” – Allievo: “Il mio fodero sei tu, maestro”) ma moltissimi inintellegibili (“Quando attraversi il ponte non si deve aver paura dei soldati” – “Al di là delle persone ci sono persone, al di là delle montagne ci sono montagne” oppure “Nascondi il fiore sotto le foglie solo una volta”) ripetuti per buona parte delle oltre due ore di durata (la versione di cui scrivo dovrebbe essere quella europea di 122 minuti, vista in lingua originale con sottotitoli), sfiancherebbero anche lo spettatore più ben disposto.
Anche la reiterata riproposizione dei già citati primi piani concettuali, a volte francamente privi di senso “cinematografico” logico, unita ad una certa leziosità della messa in scena, stuzzicante a tratti ma pomposa nell’insieme, contribuisce ulteriormente ad avallare l’ipotesi che un eccesso di estetismo abbia preso la mano al regista.
Pur con questi difetti e fatta la tara ad una certa slegatura scenica (alcune sequenze, come quella introduttiva, non sembrano avere alcun nesso con il racconto), ci sono anche cose positive nel film, come la rappresentazione (voluta o meno) dell’abulicità di questi maestri persi nei propri codici esistenziali e negli interminabili scambi marziali, incapaci di rapportarsi (quasi tutti, a parte il personaggio di Yixiantian) con i cambiamenti epocali in atto (l’invasione giapponese della Cina), la buona coreografia di alcuni combattimenti e la convincente prova di tutti gli interpreti principali, elementi che ne agevolano la visione, nonostante le incertezze citate.
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