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The Grandmaster

Regia di Wong Kar-wai vedi scheda film

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La recensione su The Grandmaster

di EightAndHalf
6 stelle

Wong volteggia tra estremi languori per innalzare il canto di un mondo che fu. La trama di “The Grandmaster” è esile e semplice, la storia dietro i fatti segue traiettorie complesse e biforcute, influenza i protagonisti nei loro comportamenti, ma sparisce di fronte a una trascinante visione di un nuovo orientale sogno cinematografico. Il regista hongkongese sembra, con questo film e coi suoi precedenti, rendere possibile un neo-Romanticismo, fatto di passioni e di inconciliabili dimensioni esistenziali. L’arte del kung fu percorre i suoi ultimi passi da viva, esiste colma di rimpianti e rancori, strazia e distrugge onori passati, imprigiona l’uomo in sconclusionate velleità. Si ricordano i tempi di uomini invincibili, in cui si riusciva a gerarchizzare il sentimento, a giustapporlo a una cura razionale per il movimento, senza per questo scalfirlo nella sua profondità. Lo stesso Wong fa con il suo cinema, controllando con maestria i sentimenti che dalle sue scene traboccano, che riempiono l’atmosfera di pura emozione. La storia, come la trama, diventa funzionale a quella che è la vera protagonista del film: l’eleganza che invecchia delle acrobazie, la leggiadria indimenticata di “ralenti” e accelerazioni improvvise, come nei migliori film di kung fu, il cinema stesso, che, come Gong Er (una stupenda Ziyi Zhang), si fa portatore di una tradizione passata, un cinema che rimarrà e ci ricorderà di un passato glorioso. I personaggi così, nell’usura del tempo, si fanno miti, incarnano personalità forti e appassionanti, che lottano contro la sistematica distruzione delle loro certezze. Altri si oppongono a rigidità necessarie, cercando nella sopraffazione l’esito della loro ricerca. Altri ancora sconfiggono, ma mantengono intatta la dignità del vinto. E in questa giostra di caratteri nobili e grandiosi, Wong Kar-wai ci ricorda la brevità del nostro viaggio di fronte al sublime di un mondo distrutto e piovoso, in cui l’oro si arrugginisce nelle insegne dimenticate delle strade che fecero e crearono eroi. Tanto è coinvolgente e maestoso il suo sguardo (per quanto mesto e poco ottimista) che rischiamo davvero di dimenticarci del resto, di tollerare un orgoglio che lui, sì, può permettersi tutto, ma che si gonfia e si gonfia, e a tratti causa lungaggini disarmoniche che in “2046” non c’erano. Per fortuna solo a tratti. Però preoccupa un suo prossimo possibile lavoro, perché questo sguardo, qui tanto utile e sincero, sembra sfiorare (sempre a tratti) il manierismo. Perora però godiamoci questa nuova fuga in un reale per noi così lontano, ma che Wong avvicina a noi con la colonna sonora finale di Morricone. Un “C’era una volta ad Hong-Kong” languido e nostalgico.

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