Regia di Wong Kar-wai vedi scheda film
L’estetica della noia. E’ purtroppo una brutta sorpresa questa fatica di Wong Kar-wai, molto sentita tra l’altro dal grande regista , consapevole di mettere mano ad un importante ambito culturale cinese.
La storia delle scuole di arti marziali, di cui il leggendario Ip Man – maestro del leggendario, anche se per motivi cinematografici, Bruce Lee - diventerà il maestro assoluto è raccontata con enfasi e partecipazione dilatando il racconto nell’arco dell’intera vita. Durante gli anni Trenta quando il mondo arcaico cinese finisce per entrare nella modernità, Ip Man è il messaggero rinnovatore che si oppone alla disciplina della sua scuola di arti marziali. Grande attenzione per le ambientazioni, fotografia e scenografie. Attori – divi del cinema- replicano la divinità di Ip Man, su tutti Tony Leung. Storia delle scuole di arti marziali e scontro per la supremazia che disegna la storia della Cina vista dalla parte dei tenutari di un’arte che prima di essere combattimento è modello di vita e filosofia dell’esistenza, controllo e disciplina, richiamando ad ogni gesto una particolare figura ancestrale, metaforica propria della cultura cinese, opposta alla mutevolezza caotica della Storia. Storia d’amore stratificata e complessa. Storie che si intrecciano e volano e si scontrano come i maestri affrontano i combattimenti con il loro avversari.
Purtroppo il tutto è portato ad un eccesso visivo e narrativo che annoia e interessa molto poco. Gradatamente l’attenzione scema e la ridondanza, tipica, del grande regista diventa solo un formale esercizio di estetica. Le caratteristiche che hanno reso celebre Wong Kar-wai qui sono buttate sullo schermo senza filtro, senza sospensione e razionalizzazione. Soprattutto, a differenza di quanto successo nei suoi lavori precedenti, il film è ossessivamente verboso quando non addirittura didascalico.
La necessità di rendere omaggio al mito ha sacrificato l’asciuttezza della poesia visiva dei lavori precedenti ad un esagitazione bulimica che ha investito tutte le componenti del film. L’esigenza invece di spiegare la storia , complessa, del maestro Ip Man , forse pensato per il mercato mondiale, ha comportato l’uso smodato dei dialoghi caricando ulteriormente il comparto visivo già di per sé ridondante di una pesantezza che l’ eccessiva lunghezza del film rende quasi insopportabile.
Quindi ralenty a catinelle, ripetizioni, lungaggini verbali e un melò sdolcinato annegato in una luce estetizzante - direttore della fotografia Philippe Le Sourd - si schiantano in un triplo finale sfiancante. La “grande bellezza” rimane così imbrigliata in una pesantezza formale che non appassiona, non emoziona e non rende giustizia alla figura, mitica, di Ip Man poiché un film non può essere esaustivo su una figura così importante.
A parziale discolpa di Wong Kar-wai, si può ammettere che la visione di questo film è inficiata dall’ovvia scarsa conoscenza della cultura e della storia della Cina, così che ad un certo punto viene il sospetto che nonostante i dialoghi, non tutto sia perfettamente comprensibile a causa proprio di questa lacuna.
Nozioni storiche e filosofia della vita di questi guerrieri tenutari di arti antiche quanto la civiltà che magari ad un intellettuale cinese possono risultare evidenti e che ad uno spettatore occidentale sfuggono dando la sensazione di perdersi dei pezzi. Credo che il fallimento di The Grandmaster sia dovuto proprio a questo. Il tentativo di rendere il più comprensibile possibile una storia complessa e misconosciuta sotto la forma meno adatta, quella del blockbuster , anche se d’autore.
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