Regia di Wong Kar-wai vedi scheda film
The Grandmaster segna il ritorno in grande stile di uno dei più grandi registi dell’est, che tuttavia ci aveva lasciato un po’ freddi con la sua ultima poco convincente opera “occidentale” di quasi sei anni orsono (Un bacio romantico).
Grandmaster è un film anomalo sulle arti marziali: insolito per la complessità che si porta dietro, ben differente dai film di genere sull’argomento, poco propensi a perdersi a lungo in contesti storici fin complicati, ma al contrario troppo intenti ad esaltare fino allo stremo la scena del combattimento. La quale non è per nulla presa sottogamba, tutt'altro: solo validamente e saggiamente incorniciata in un preciso contesto storico fondamentale. Una struttura che comunica solidità e che in soli pochi minuti di visione ti catapulta all’interno di un capolavoro di ricostruzione storica che di solito ritroviamo nell’opera che segna la definitiva consacrazione dell’autore alla storia del cinema: il senso epico presente pure in opere fondamentali per i rispettivi maestri come lo è stato (per citarne qualcuno così di getto) in capolavori come “C’era una volta in America” piuttosto che “Il Padrino” o “Quei bravi ragazzi” o lo stesso “Ultimo Imperatore”, matura anche qui la convinzione che ci troviamo di fronte ad un’opera che ha tutte le caratteristiche qualitative e formali per passare alla storia: uno sforzo titanico che ha richiesto 10 anni di sforzi produttivi per la sola preparazione dello script e l’organizzazione della complessa macchina produttiva, e ben tre anni di riprese difficoltose anche per due star indiscusse e richiestissime del cinema dell’Est come Tony Leung e Zhang Ziyi, per l’occasione docilmente al servizio del gran maetro e cerimoniere Kar-Wai.
Una produzione funestata da una serie di ostacoli e difficoltà oggettive e burocratiche che peraltro si avvertono qua e là nel contesto narrativo, e si traducono in una oggettiva difficoltà, certamente acuita nei riguardi dell’ignaro ed impreparato spettatore occidentale, spesso un po’ interdetto nel seguire i fili di una trama che tende a disperdersi in più personaggi antagonisti, capi-scuola di correnti di pensiero esistenziali che vanno ben al di là del mero e semplicistico esercizio fisico di un’arte marziale intesa come sport o attività fisica.
Presentato al mondo, che da tempo attendeva al varco il grande regista, come la storia del leggendario Ip Man, maestro di kung-fu chiamato ad attirare a sé le varie correnti di pensiero che muovono l’arte del kung-fu e che inevitabilmente si sfaldano in seguito alla morte del sommo maestro custode della verità suprema, assassinato da un seguace traditore verso la metà degli anni ’30, Grandmaster in realtà racchiude in sé tutta una serie di protagonisti che si contendono per anni il ruolo del defunto maestro: tra questi certamente Gong Er, figlia triste e rancorosa del celebre caposcuola, assetata di vendetta e di verità. Ma non solo: anche tutti gli altri fieri portavoce delle altre costole/scuole di pensiero che sfaccettano una disciplina complessa e varia come il kung-fu, qui visto certamente più come una scuola di vita che un semplicistico e fine a se stesso strumento di auto-difesa.
Ambientata caoticamente tra la metà degli anni Trenta e fine anni ’50, resa più complessa dalla determinazione di non voler invecchiare durante tutto l’arco temporale la maggior parte dei protagonisti contendenti, l’epopea magnifica e sontuosa cavalca (talvolta in ordine sparso e con un andirivieni temporale un po’ caotico) gli anni della guerra civile sanguinosissima, che sterminò intere popolazioni cinesi e tra l’altro la famiglia un tempo agiata di Ip Man, fino a giungere alla brutale invasione giapponese, che non fece che gettare caos su caos e spinse il nostro protagonista ad emigrare nella colonia inglese di Hong Kong (dove poi aprì la scuola di arti marziali che la storia – ma non questo film – ci fece sapere fu frequentata anche da un giovane Bruce Lee).
Composto da almeno tre sequenze che potrebbero passare alla storia del cinema (il duello iniziale sotto una pioggia battente sferzante ripresa al ralenty e le inferriate severe di un cancello imponente; la scena del duello interminabile ed esaltante tra Zhang Ziyi-Gong Er e l’assassino del padre, mentre un treno senza fine inizia il suo viaggio e scorre tra le rotaie di una stazione avvolta da una nevicata magica -scena che pare abbia richiesto due mesi e mezzo di riprese; la lunga carrellata a sorpresa dopo i titoli di coda, con una sinuosa macchina da presa che ci para davanti agli occhi la figura accattivante e misteriosa di un Ip Man semi-nascosto dal suo cappello, presenza costante di tutta una vita), il film di Wong Kar-Wai ci riporta al massimo livello un regista che personalmente considero tra i miei preferiti in assoluto.
Una lezione di cinema che vista filmata da altri autori rischierebbe di essere giudicata effettata e compiaciuta, ma che con Wong Kar-Wai raggiunge livelli stilistici sublimi sfiorando la perfezione. Certo poi come accennato poco sopra la trama risulta talvolta difficile da comprendere completamente nel suo insieme (ma quel quasi-capolavoro di 2046 non faceva certo eccezione e risultava sin più complesso del presente), in modo da riuscire agevolmente a concatenare certi personaggi secondari ma fondamentali di un racconto così sfaccettato e complesso: ma ciò non toglie che il risultato finale sia eccezionale ed affascinante, in grado di farci abbandonare la sala con i brividi a pelle per tanta magia e grazia, dopo due ore di concitata esaltante beatitudine per gli occhi, che spaziano e si rendono complici di una mdp che esegue miracoli, tra poetiche ed improbabili nevicate su frutteti in fiore e piogge battenti sferzate su livide strade di sobborghi avvolti dalle tenebre .
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