Trama
Nel 1988 Aung San Suu Kyi (Michelle Yeoh), figlia del generale birmano assassinato dopo aver liberato dall’oppressione dell’impero britannico il suo Paese, lascia Oxford per ritornare in Birmania al capezzale della madre gravemente malata. Appassionatasi alle lotte democratiche per destituire il regime militare di Saw Maung, in nome di principi come il voto equo e la parità, Aung San Suu Kyi si candida alle elezioni, vincendole. Ma il sogno di divenire primo ministro si infrange contro la repressione sanguinaria dei militari che, rigetteranno l’esito delle urne, riportano il clima di terrore e la condannano agli arresti domiciliari, rifiutandole anche la possibilità di prendersi cura del marito, ammalatosi nel frattempo di cancro.
Approfondimento
AUNG SAN SUU KYI, VIVA E IMMORTALE
Aung San Suu Kyi è uno dei principali oppositori della giunta militare al potere in Birmania. Ha dedicato tutta la sua vita alla lotta per l'avvento della democrazia nel suo Paese. Dopo aver vinto le elezioni politiche nel 1990 ed essere stata insignita del Premio Nobel per la Pace l'anno successivo, è rimasta agli arresti domiciliari per quasi quindici anni senza rinunciare mai alla lotta. Nel 1999 ha dovuto rinuciare a partire per l'Inghilterra per far visita al marito, che stava morendo di cancro, per paura che gli venisse negato il rientro in Birmania. E solo nel novembre del 2010, dopo la sua liberazione, ha potuto riabbracciare i figli Alex e Kim, a dieci anni dall'ultima volta che li aveva visti.
MICHELLE YEOH PROTAGONISTA E MOTORE DEL PROGETTO
L'idea di realizzare un film sulla figura del premio Nobel Aung San Suu Kyi è venuta direttamente all'attrice Michelle Yeoh che, dopo aver letto la sceneggiatura ed essere rimasta impressionata da una figura femminile così forte anche per il mondo del cinema, l'ha proposta a Luc Besson, contando sul suo aiuto sia per la produzione sia per la regia. Reticente in un primo momento a causa di impegni già presi, Besson ha cambiato idea dopo la lettura del copione, da cui è stato letteralmente rapito: conoscendo della vicenda solo ciò che aveva letto sui giornali, è rimasto folgorato dalla volontà di una donna dalla figura esile ma caparbia che non si è lasciata piegare dalle traversie del destino e ha sacrificato la sua vita privata in nome degli ideali in cui credeva.
IL TOCCO DI BESSON
Con una prima bozza che virava più verso il documentario che sul cinema di finzione, Besson ha aggiunto il suo tocco al copione già esistente, conferendogli un respiro più ampio e cinematografico, portando sullo schermo non solo la lotta politica ma anche gli anni che San Suu Kyi ha passato a completare i suoi studi durante la reclusione forzata, in cui l'unica via di fuga alla pazzia erano i libri su cui concentrava le proprie attenzioni. L'aspetto più frustrante era però quello di dover raccontare la biografia di un persona ancora in vita senza avere modo di incontrarla e sentire direttamente il suo punto di vista, con il rischio così di tradire la verità o di appesantirla. Gli unici appigli per Besson erano quindi i pochi libri a disposizione che ripercorrevano la storia della donna e quella del padre, un rivoluzionario che ha portato alla liberazione della Birmania nel 1940, assassinato quando Suu Kyi aveva solo tre anni, oltre alla documentazione inerente ad altre figure costrette dal regime ad anni di carcere, come lo scrittore U Win Tin o all'attore Zargana. Così come la protagonista del film La scelta di Sophie che deve scegliere tra i suoi due figli, anche la Suu Kyi di Besson è rappresentata come una persona chiamata a fare una scelta difficile e dolorosa tra l'amore per la sua famiglia e quello per il suo Paese.
Peggio ancora, invece, è andata con la scrittura dei personaggi dei generali e dei militari. Per rendere la storia più credibile e ancora più coinvolgente, Besson ha scelto di inserire anche le figure dei "cattivi", mostrando i volti di coloro che hanno governato la Birmania per oltre 60 anni e illustrando il difficile rapporto che Suu Kyi aveva con loro. Poiché non esistono fotografie o libri che raccontino le loro storie si è deciso di utilizzare le uniche fonti attendibili: i rapporti raccolti da Amnesty International che, nel corso degli anni, ha ascoltato le testimonianze di centinaia di migliaia di birmani costretti al carcere e che poi, una volta tornati in libertà, hanno trovato il coraggio di raccontare il trattamento e le violenze subiti dal regime.
L'obiettivo da non tradire era quello di rispettare il contesto e l'ambientazione in cui tutta la storia hanno avuto luogo. Per entrare nel ruolo di Suu Kyi, Michelle Yeoh ha ottenuto lo straordinario permesso di incontrarla per 24 ore, durante le quali è riuscita a modellare il suo accento e ad acquisire il suo stesso linguaggio corporeo, tanto che il primo giorno in cui si è presentata sul set chiunque è rimasto colpito dalla straordinaria somiglianza raggiunta.
Con forte rispetto del personaggio che doveva interpretare, l'attrice ha trascorso sei mesi a imparare il birmano. Nonostante parlasse già mandarino e malese, voleva essere fedele alla Suu Kyi e in particolar modo al discorso che questa ha tenuto alla pagoda Shwedagon, nel quale emergevano le linee guida delle sue intenzioni e della sua filosofia non violenta ispirata a Gandhi e alla religione buddista.
La fedeltà ai dettagli ha fatto sì che anche la casa in cui Suu Kyi ha trascorso reclusa 14 anni della sua vita senza accesso al telefono o ai media fosse ricostruita dettagliatamente, ricercando foto degli interni e riproponendo persino le stesse cornici sulle foto da lei usate. Anche la realizzazione di una delle scene più potenti del film, quella della cerimonia di assegnazione del premio Nobel per la pace, è stata ricostruita fedelmente sulla base di testimonianze: di fronte ai filmati delle televisioni di tutto il mondo che mostrano più di due mila persone accorse durante l'evento, si staglia la figura di Suu Kyi che, da sola, ascolta nella sua piccola radio le motivazioni dell'assegnazione, scena a cui nella realtà nessuno ha mai assistito.
Totalmente creata ex novo è anche la scena della barricata militare di Danubyu: non esistono foto di Suu Kyi che avanza da sola verso i militari per parlare con il loro capitano. Nel momento in cui la scena è stata girata, con lei ancora agli arresti domiciliari, Besson è dovuto ricorrere ai pochi e frammentari racconti di chi quel giorno era presente, creando dal niente una scena immaginaria eppure perfettamente plausibile. Per il discorso alla pagoda Shwedagon, grande aiuto è arrivato da un cittadino ormai sessantenne che, avendo assistito insieme ad altre pochissime persone a quel memorabile giorno, ha voluto anche partecipare alle riprese del film rivivendo la scena con un forte coinvolgimento emotivo.
Com'è facile immaginare, la Birmania non ha mai dato il permesso per il riprese e il regista è stato costretto a ripegare sulla vicina Thailandia, posizionando il set in un paesino non lontano dal confine birmano, in modo da avere un paesaggio il più fedele possibile a quello originale, mentre per la pagoda Shwedagon si è ricorsi alla tecnologia. Dopo aver ripreso la pagoda da ogni angolatura, gli attori sono stati fatti recitare su uno sfondo verde per poi miscelare il girato, raggiungendo un alto effetto realistico grazie anche alle 3 mila comparse usate in scena.
Il giorno della liberazione della Suu Kyi, avvenuta nel novembre del 2010, è stato, poi, uno shock per tutti coloro che erano coinvolti nella realizzazione del film. Proprio quel giorno infatti erano appena state filmate le immagini della sua prima liberazione nel 1995. Besson l'aveva immaginata mentre, dopo aver oltrepassato un cancello di legno, saliva le scale per salutare la folla che la stava aspettando. Tornando in albergo la sera e accendendo la tv, quella scena era diventata, davanti ai suoi occhi, realtà: appena liberata e vestita quasi allo stesso modo con cui Besson l'aveva fotografata per lo schermo, Suu Kyi stava salendo le scale per salutare la sua folla e quasi il regista faticava a capire se quello che ammirava fosse fantasia o realtà.
Note
Sulla strada del biopic tradizionale, nelle zone di Attenborough (più Grido di libertà che Gandhi), Besson filma la figura mimetica di Michelle Yeoh, che ha dovuto ricostruire la personalità dell’attivista studiando moltissime ore di filmati documentari su di lei, non avendo potuto incontrarla. Se la rappresentazione della giunta militare rischia l’effetto caricatura, la dimensione intima ha invece una fortissima intensità. The Lady è pieno di abbandoni improvvisi (la figura di Aung San Suu Kyi che diventa piccola agli occhi del marito e i figli costretti ad andarsene), di telefonate interrotte, di abbracci appassionati, con la prova monumentale di David Thewlis, in cui ogni incontro viene mostrato come se fosse l’ultimo.
Trailer
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Commenti (3) vedi tutti
Discreta biografia, anche se un po' superficiale.
commento di gruvierazNon Vita
leggi la recensione completa di BradyBrava Michelle Yeoh nell'Interpretazione di questa donna Birmana che da qualche anno si e' fatta conoscere nel mondo a causa dell'intolleranza Politico/Dittatoriale dello Stato in cui viveva ma per il resto il Film e' assai noioso.voto.5.
commento di chribio1