Regia di George Clooney vedi scheda film
La natura della politica ha sempre la pulizia di un volto spendibile nell’arena del consenso. E’ un erma bifronte cresciuta nella consapevolezza del successo ottenuto con l’abilità di saper mostrare il profilo migliore. George Clooney questo lo sa per esperienza, essendo riuscito lui per primo a costruirsi un immagine di elegante sciupafemmine, oltre ché di artista a tutto tondo, che neanche i gossip più piccanti sono riusciti a scalfire. Un’analogia, almeno nel meccanismo in cui questo immaginario si produce e viene recepito dalla pubblica opinione, che il regista rende in quest'ultima uscita alla maniera di Moretti con il suo “Caimano”, ovvero sottraendo il più possibile dalla scena l'icona del film, il senatore Morris candidato alla presidenza del partito democratico, facendola poi rivivere nel teatro messo in scena da chi quella candidatura la rende credibile agli occhi dfella gente. Un leading role, quello del politico interpretato da Clooney, vissuto dalla pellicola per interposta persona, attraverso lo spin doctor che ne cura l'immagine, e riassunto in maniera efficace nelle due scene che aprono e chiudono il film in cui Stephen (Ryan Gosling) è impegnato fino all’immedesimazione – con la telecamera che soffermandosi sul viso celato dall’ombra di uno studio appena illuminato cristallizza questo transfert – a sostituire il candidato nelle prove tecniche che precedono la sua entrata in scena. Se questo è vero, quello che vediamo è la rappresentazione di una scalata al potere capace di mostrare le regole del gioco attraverso la metamorfosi dell’uomo che di quell’ascesa è il più accanito sostenitore. Stephen rappresenta infatti l'ideale progressista sconfessato dal tornaconto personale, da chi come lui vuole a tutti i costi rimanere al comando della campagna elettorale dal quale è stato estromesso. Una parabola incominciata con il sorriso smagliante e l’abbigliamento elegantemente informale, e poi proseguita in un gioco al massacro di chi per sopravvivere è costretto a calpestare chi gli sta accanto. A fargli da contorno un branco di squali in attesa del banchetto. Dall’ecatombe non si salva nessuno perché ogni cosa è l’emanazione del principio machiavelliano in cui il fine giustifica i mezzi.
Se Clooney non rivela niente di più quello che già non si sapesse, bisogna registrare invece un innalzamento dei toni nella direzione di un pessimismo che per essere il più amaro possibile sceglie di affondare quella parte della politica solitamente ritratta in maniera più benevola – il senatore ed il suo staff appartengono alla sinistra cresciuta sulla scia del mito Kennediano – e che invece qui rappresenta da sola la faccia oscura dell’America. Isolando i suoi uomini all’interno di un fortino rappresentato dagli uffici dove si svolge la campagna e nelle stanze, comprese quelle dell’albergo in cui la stagista perderà la propria vita, (c’è anche la panchina all’ombra del campidoglio ormai il simbolo di tutte le cospirazioni), Clooney ci dice che ciò che avviene è una partita vissuta lontano dagli interessi della gente, chiusa all'interno di un manipolo di soldati destinati al sacrificio. Un'affermazione che si deduce dal modo in cui il regista ci mostra i protagonisti: avvolti da una fotografia autunnale, rigorosamente ingessati dentro i loro ruoli - le scene di vita privata sono pressochè assenti, ed anche quando ci sarebbero i presupposti la parte pubblica continua a prevalere - , sempre pronti a salvaguardare lo scopo dai cortocircuiti della vita - la reazione del personaggio interpretato da Seymour Hoffmann che reagisce allo sconforto di una vita umana appena andata con il cinismo di un prossimo lavoro non all'altezza delle sue aspirazioni ma comunque altamente remunerativo - spesso nascosti agli occhi dello spettatore, come accade in uno dei momenti clou del film, quando Morris svela la sua vera natura. Clooney lo fà in una scena in cui il politico, sul punto di tradire il suo uomo più fidato per non mettere a rischio la carriera, è celato dall'abitacolo in cui avverrà la discussione. E come se il regista, in quella ripresa frontale, con lo spettatore incapace di vedere ed anche di sentire ciò che i due si stanno dicendo, affermasse l'impossibilità di conoscere gli abissi di una lotta primigenia. Un limite oltre il quale è meglio immaginare per non perdere del tutto la speranza. Nel far questo Clooney si riappropria di una sobrietà che gli era mancata nella precedente uscita. Conscio di un cinema che non può fare sfracelli perchè ancora in formazione (ma l'esempio di Eastwood lascia ben sperare sugli sviluppi futuri), il divo esegue il compito in maniera diligente. Si affida alla bravura degli attori, alla solidità di una sceneggiatura collaudata, alla sua capacità di rimanere equilibrato. Forse anche a rischio di passare un pò in sordina. Di non alzare il tono della voce alle frequenze del cinema contemporaneo. In questo "Le idi di marzo" è un film sicuramente fuori moda.
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