Regia di Steven Soderbergh vedi scheda film
“Knockout. Resa dei conti” (Haywire, 2011) è il ventitreesimo lungometraggio di Steven Soderbergh. Il regista di Atlanta da “Sesso, bugie e videotape (Sex, Lies and Videotape, 1989) ha sciorinato una filmografia variegata e pomposa(ta) ma senza lasciare il segno e uno stile personale. Appena vedi(o) un film di Soderbergh non distingui particolari e/o ambienti che timbrano l’inquadratura o sapienti giri di manovella che ti fanno alzare l’impeto ‘celluluoide’. Una chiosa, un quadretto, un sipario e una cerchia di attori (di livello senza dubbio) che si dimenano bene senza convinzione il più delle volte (da “Ocean’s..” a “Contagion”, da “Solaris” a “Haywire”).
Le sue opere più trattenute, introspettive e pieno di realismo sono le migliori: come “Erick Brockwich” (2000) e “Bubble” (2005).
“Haywire” (‘impazzito’ e ‘confuso’) è un film di dimostrazione assente dell’uso degli ambienti e dei set: chi sa se i luoghi turistici e i vari pezzi che interagiscono si dimostrano all’altezza della storia e quindi del regista?...
“Cazzo…” è sì il film inizia con questa imprecazione (di vaglia) al primo apparire dell’eroina Mallory Kane (nell’interpretazione prima di Gina Carano campionessa di Arti marziali) che s’immerge subito con un corpo a corpo con un collega che vuole farla fuori. Mallory fugge, lei che è preparata per uccidere, addestrata al meglio e esperienza da vendere. Il governo vuole la sua forza fisica (e morale) per proteggere alcuni e eliminare i sicari. Una fuga in auto, un racconto in flash-back, un rincorrere i luoghi, un volo sui tetti, una stretta di collo e dei pugni così ostinati. Tutto il gusto di un film in fuga e di nemici da schivare sono rituali e paracadutati con movimenti soft, stacchi troppo lunghi e ansie (adrenaliniche) che si svuotano in un barlume di luci serali. Si spegne la vera cattiveria in scontri fisici più plastificati che schizzati, più virtuali che virtuosi. Le riprese non sempre sono precise e l’alchimia (che si dovrebbe creare) tra Mallory e lo spettatore è solo a tutto schermo e non a tutto tondo: recitazione, suspence e trita nemici!
Un guasto alla corrente fa saltare i piani dei sicari di Kane nella casa del padre: in realtà l’eroina stacca la luce e il buio si fa presente sullo schermo come in quello del regista che non riesce (o riesce in parte) a seguire le mosse dell’attrice e i suoi modi bruschi (il set non deve essere stato semplice per il director di Atlanta). Alla fine il nemico deve essere raggiunto (e senza ostacoli) fino ad un epigolo scontato ( mozzato). E sì che “….cazzo” alla vista di Mallory esclama (con giusto disappunto) l’ultimo uomo dà la sensazione di una virilità contrapposta e di una contropartita filmica evidente certamente ma fiacca negli intenti e intrecci del genere. Un genere che Soderbergh non tralascia neanche per un istante attorno a Kane ma che non stimola la sinergia del pubblico assopito e assorto da un convenzionale trend narrativo.
E la (cosiddetta) scena madre con l’incontro (prefinale) tra Mallory e Coblenz (Michael Douglas) in un deposito aereo dà la sensazione di un lungo deja-vu visto (e rivisto) e di un enfatico disegno con riprese di luce e controluce (e silhouette di rito) che dà il gusto di un padrino a rovescio. E la forza recitativa di Douglas (fine a se stessa) vince senza sforzi sulla boccuccia inerme di Mallory che ha ben altro da mostrare. E l’altro giro del cast (Banderas, Paxton, McGregor, Fassbender, Kassovitz) si ritaglia a suo piacimento un gusto di cameo partecipativo in una pellicola di ‘soderberghiana’ tavola-incolume.
Da ricordare le musiche di David Holmes che riescono a sopperire (in buona parte) i salti di ripresa e gli stacchi non proprio alla causa.
Regia altalenante e abbastanza amorfa.
Voto: 5/6.
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