Regia di Philippe Garrel vedi scheda film
Molti devono aver pensato: tanto rumore per nulla. Attesissimo alla scorsa edizione della Mostra del Cinema di Venezia, l’ultimo film di Philippe Garrel ha deluso pubblico e critica. Non è difficile capire perché. Un casto nudo di Monica Bellucci introduce una risciacquatura di nouvelle vague, certo garbata, ma anche tanto insipida. Il minimalismo degli amori a fior di labbra appare qui abbondantemente diluito nel déjà vu, senza fantasia né approfondimento morale. Un’estate trascorsa in Italia da due coppie di coniugi francesi pone fine a uno dei due rapporti, in seguito al tradimento della donna, attrice emergente e moglie di un giovane pittore. La storia si conclude tragicamente per quest’ultimo, la cui sorte nefasta è anticipata nella premessa: la sua auto va a sbattere contro un albero. Il resto del racconto è un insieme di nostalgiche pennellate di un modo di fare cinema che appare ormai stanco, o forse non esiste proprio più. Occorre guardare con grande attenzione per ricavare, da questo naufragio estetico, un sommesso lamento d’autore. Philippe Garrel elabora un lutto personale (la perdita di un amico) mettendo in scena la fine di un’epoca. Parlare d’arte, di politica, di valori etici, come avveniva una volta nei circoli intellettuali, è un pietoso anacronismo, che Garrel ci ripropone, sullo sfondo sbiadito di due (ex) gloriose capitali europee: Roma e Parigi, un tempo sedi centrali della cultura internazionale, e adesso ridotte a muti scenari di ideali sconfitti. Qualcosa di moribondo boccheggia per tutta la durata del film, ma il gemito della sua agonia stenta a raggiungerci, forse perché è eccessivamente fasciato di convenzionalità. Il discorso sembra girare a vuoto intorno al funerale di una rivoluzione caduta nel dimenticatoio, che ha infiammato gli animi di una generazione per poi spegnersi senza aver ottenuto alcunché. Il movimento antiborghese ha fallito i propri obiettivi, ed al suo posto è rimasto un lasciarsi vivere vagabondo e sconsolato, rispetto al quale il conformismo si presenta come l’unica possibile salvezza. Frédéric ed Angèle continuano a sognare fuori tempo massimo, e per questo si perdono, Paul ed Élisabeth finiscono invece per integrare la loro esistenza bohémienne con la solidità fornita dal ruolo di genitori. È tutta bellezza morta, afferma, all’inizio del film, il personaggio interpretato da Louis Garrel, riferendosi allo splendore appassito dell’Urbe. Il paesaggio della ville lumière non è meno desolante. Durante la notte, una squadra di agenti di polizia arresta non un gruppo di manifestanti, bensì un manipolo di criminali, o forse di balordi. Paul offre ai passanti il giornale L’insurrection, ma ne vende pochissime copie. Il mito libertario del dopoguerra è rimasto sepolto nello squallore. Sui set nostrani e d’Oltralpe si girano film che non interessano più nessuno: storie di partigiani, e antichi drammi passionali. Mancano i soggetti, per i quali è inutile cercare di trarre ispirazione dal mondo. Frédéric racconta che, una volta, aveva dipinto il ritratto di un uomo e una donna; quando questi, poco dopo, si sono separati, ha dovuto dividere il quadro a metà. Tutto si rivela inconsistente e provvisorio. Il film si trascina afflitto dietro questa idea. Con passo zoppicante fa da corteo alla rinuncia, all’abbandono di ogni ambizione. È tramontata l’era in cui si poteva ancora credere in qualcosa, magari non necessariamente in Dio, ma anche solo nel destino, nella fortuna, o semplicemente, nel potere del caso, che arresta la corsa di un proiettile e ti sottrae alla morte. Le chance si sono esaurite, e nemmeno il coraggio, così pare, serve più a niente. L’espressività si ritrae in un sussurro disarticolato, fino a rendersi inafferrabile. Non sempre è bene trattenere il grido che riecheggia nel cuore. Non dire è meglio che dire a metà. In Un été brûlant, la costernazione di Garrel si condensa in un soffio, forse in un sospiro di dolore, che evapora all’istante, senza, purtroppo, lasciare traccia.
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