Regia di Aleksandr Sokurov vedi scheda film
Faust annega nella medietà un anno di visioni. Perché adattando l’opera enciclopedica di Goethe, ne coglie il senso profondo, ne preserva la complessità, la sostanzia in un’esperienza estetica capace di renderla percepibile, e dunque attuale, ai sensi. Con un’intensità sfiancante. Nel sudiciume soffocante della Terra pulsa il mito dell’individualismo moderno, eppure il destino del protagonista che vendette l’anima al diavolo è quello dell’intera specie: «Vorrei sprofondare con l’umanità» dice. È la contraddizione irriducibile dell’uomo a essere messa in scena: mentre con protervia afferma di volere mettere ordine alle cose del mondo tramite la scienza, il mondo gli sfugge sistematicamente, si apre in squarci surreali, si deforma in allucinazioni tangibili, e l’individuo (nonostante «in principio fu l’azione») si perde alla deriva, passivo in un viaggio picaresco dove nel caos si fa mimetico il progetto subdolo, naturale, del Male. Così la Tetralogia di Sokurov si conclude con quella che di Moloch, Taurus, Il Sole (e in fondo dello stesso Faust, visto che alla firma del contratto si giunge sul finale) è la premessa: il fallimento del potere (di ciò che può quella cosa piccola che è l’uomo) è l’anticamera delle ineluttabili degenerazioni del Potere. Delle gesta oscene di Hitler, Lenin, Hirohito. Capace di farsi mondo affrontando il mito, Faust dipinge con la luce e abbraccia secoli di Storia dell’Arte (da Dalí si sprofonda in Bosch, ci si illumina di Vermeer), mentre il maiuscolo parco attoriale riproduce con enfasi teatrale la nostra mediocrità e si smarrisce in immagini che sperimentano con costanza le capacità espressive del cinema (a partire dall’omaggio al Faust espressionista di Murnau). Epica del grottesco in formato 4:3, è un’esperienza sensuale aggressiva e dislocante, fisica - sino a restituire odore e consistenza di quel Medioevo - molto prima che filosofica, luogo tumultuoso dove lo spirito non prescinde mai dalla gravità del corpo. Sokurov – lirico e terragno erede di Dovzenko, allievo di Tarkovskij - ambisce al sublime, perché guarda contemporaneamente al terribile e al ridicolo. Con il ghigno consapevole del fatto che nulla è assoluto. Semplicemente oltre ogni altra opera del Concorso, inevitabile Leone d’oro a Venezia 2011.
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