Regia di Aleksandr Sokurov vedi scheda film
Ombre fluttuanti che ai miei occhi mesti
nei primi anni appariste, eccovi ancora.
Conviene alfin che stavolta io v’arresti?
Incline a quel miraggio è il cuor tutt’ora?
Premete in folla. E sia! Da grige vesti
di bruma uscendo, fate pur dimora;
giovanilmente il sen mi si riscuote
al magico balen che vi percuote.
(Goethe – Il primo Faust – trad. di Liliana Scalero)
Il Faust di Sokurov (immenso e straordinario come tutto il suo cinema) richiederebbe fiumi di inchiostro per definirlo interamente, esattamente come accade per le opere d’arte più complesse e articolate (perché di questo stiamo parlando), esigerebbe la dettagliata analisi di un saggio profondo e strutturato, lo studio attento di uno “specialista” particolarmente preparato e consapevole, capace di “penetrarne” il senso fino in fondo, così da interpretarne gli umori e la densa materia e metterne di conseguenza a nudo (coglierne) non solo i pregi e il valore, ma anche le differenze (e le provocazioni) che ci sono dentro, che è poi lo sforzo che ha profuso il regista per approdare a un più personale e inedito approccio (anche interpretativo) rispetto persino al “modello” di riferimento, pilastro fondamentale della cultura tedesca e non solo, a cui si ispira, ma tenendone comunque solo marginalmente conto ed operando poi in assoluta autonomia persino di pensiero, come vedremo in seguito.
Qui non abbiamo ovviamente adeguato spazio per fare dell’opera una disamina di siffatta natura e portata: cercherò di conseguenza di provare a “semplicizzarne” un poco il senso (sperando di riuscirci), ma partendo subito da un’evidenza assoluta, e cioè che questo Faust, anche se può apparire per più di un verso un vero e proprio rompicapo di difficilissima fruizione per quella grossa fetta di pubblico che cerca dal cinema qualcosa di maggiormente rilassante e di meno impegnativo e problematico, è un capolavoro assoluto (termine da usare sempre con molta parsimonia ma che qui ci sta tutto) della settima arte. Se ci fosse qualcuno non in sintonia col mio pensiero (potrebbero essere anche tanti, immagino) spero comunque che non me ne vorrà per questa mia affermazione tanto categorica, poiché dovrà in ogni caso ammettere che ci troviamo di fronte a una di quelle pellicole “pensate” col cervello (merce preziosa insomma ai giorni nostri) che certamente non concede nulla, non media, ma al contrario “pretende” invece e molto dallo spettatore (non solo dal punto di vista dell’attenzione, ma anche della conoscenza, perché altrimenti resta difficile districarsi dentro la fitta ragnatela di riferimenti culturali ed etici che si porta dietro).
Film di “meditazione” e non per tutti i gusti dunque, da “prendere” o “lasciare”, di quelli da “distillare” e metabolizzare lentamente che può però a mio avviso essere “gustato” (apprezzato) lasciando per un attimo da parte il versante filosofico, anche come una inusuale, particolarissima e magnifica esperienza “sensoriale” dello sguardo. Ovviamente persino per far questo, si deve avere però il coraggio (e magari anche la pazienza), di abbandonarsi senza reticenze alla magniloquenza delle immagini, “arrendersi” alla loro avvolgente, ammaliante forza espressiva che come sempre in Sokurov è elevatissima, esattamente come lo è la forma e lo stile, e da tutto questo lasciarsi trascinare fino in fondo. Ci si potrebbe allora accorgere che stiamo davvero vivendo un’esperienza visionaria strabiliante, davvero irripetibile, quasi ai confini della percezione.
“Dio è ovunque”
“Quindi da nessuna parte”
Meritato vincitore del Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia dello scorso anno, con questo Faust il grande regista sovietico conclude una poderosa e più che decennale tetralogia sul potere iniziata nel 1999 con Moloch, e proseguita poi con Toro (2000) e Il sole (2005), rispettivamente incentrati sulle figure di Hitler, Lenin e dell’imperatore del Giappone Hirochito, viste e interpretate puntando soprattutto l’occhio della cinepresa, sulle loro bassezze umane.
Se nei tre precedenti capitoli si narrava dunque di personaggi realmente esistiti, questa volta invece la messa in scena della ricerca dell’assoluto, è concentrata su uno dei miti più longevi e accattivanti dell’immaginario moderno (come testimoniano non solo le tante trasposizioni cinematografiche e teatrali, ma anche le altrettanto innumerevoli “variazioni” in musica che ne sono state fatte) che può di conseguenza consentire un’interpretazione (rilettura) più libera e feconda (e soprattutto più “intrigante”) - anche se pure il Dottor Faust (nato a Knittlingen nel Wüttemberg nel 1480 e morto a Staufen in Brisgovia intorno al 1540) è poi nei fatti un personaggio che è veramente esistito, pur se in una maniera molto più “cialtronesca” di quanto non emerga invece dalla mediazione letteraria che si richiama al potere affabulatorio proprio della leggenda, da subito sviluppatasi intorno a questo emblematico “simulatore” e alla sua morte che si voleva attribuire a uno spirito maligno, per aver lui venduto l’anima al diavolo - per immortalarne però le gesta secondo i propri parametri morali, etici e religiosi di riferimento.
Perchè quest’ultima fatica sokuroviana dove c’è una perfetta aderenza fra forma e contenuto, è una di quelle opere che lavorano su differenti piani di fruizione facendoli coincidere però con assoluta precisione, un riuscitissimo tentativo insomma di provare a condensare in un solo “corpo” sperimentazione e cultura, il che rende il risultato finale originalissimo, oltre che molto stimolante e – come già detto - fortemente visionario.
Infatti, pur collocandosi nel solco di un patrimonio culturale europeo ben consolidato, che da Marlowe (La tragica storia del Dottor Faust) a Goethe (il primo e il secondo Faust) e Thomas Mann (Doctor Faustus. La vita del compositore tedesco Adrian Leverkühn, narrata da un amico)[1] ha fatto di Faust un personaggio archetipico, l’artista russo è riuscito nell’arduo compito di utilizzare l’immagine di quella blasonata tradizione letteraria (anche un tantino abusata), per “reinterpretarla” e farla diventare una lucida e moderna metafora sulla natura del potere.
Ne viene così fuori un racconto trascinante, ma al tempo stesso, fluido e vischioso, che proietta all’esterno gran parte di quella “dannazione” che nella tradizione è invece sofferenza interna, e alla fine anche smarrimento.
Lontanissimo dalla spiritualità dell’opera di Goethe e dalla sua dialettica fra ambizione e castigo, il Faust di Sokurov è infatti e al contrario, la rappresentazione di un uomo molto terreno, concentrato principalmente a soddisfare gli istinti primari della vita quali la fame e il sesso, piuttosto che la sete di conoscenza.
E al pari di lui, anche Mefistofele, qui chiamato semplicemente Mauricius, diventa e si trasforma in un povero diavolo molto umano e dall’aspetto ripugnante, che fa l’usuraio (fondamentale “variazione” questa) ed è così ignorante da commettere madornali errori di grammatica anche nel redigere il famoso contratto di compravendita dell’anima.
Il loro mondo è dunque concreto, pieno di odori, di miseria e sporcizia, così come doveva essere la condizione di “sopravvivenza” in un villaggio qualunque dell’Europa centrale stremato dalle guerre e dalle carestie dei secoli passati. Ed è così che Sokurov lo raffigura nel film attraverso un meticoloso lavoro ricompositivo di quell’universo un poco fatiscente: da sempre amante della pittura romantica, svolge il suo lavoro proprio in questo senso (aiutato dalla scenografa Yelena Zhukova e dalla costumista Lidya Kryukova) sfruttando molte suggestioni pittoriche e non solo, utilizzando però i mezzi tecnologici offerti dalla cinematografia moderna (ricorre per esempio a un elevato numero di immagini sintetiche, oltre che a effetti digitali – i simboli nel cielo – e a trucchi – il corpo abominevole del diavolo/usuraio) con un mix di linguaggi e differenti modalità di rappresentazione, che fanno appunto diventare la pellicola, al tempo stesso, un’opera certamente filologica, ma decisamente d’avanguardia.
Sokurov costruisce di conseguenza (anche per i fruitori in sala) un percorso narrativo che è un viaggio non meno complesso, distorto e deforme, di quello che il deforme (e distorto) Mauricius/Mefistofele riserva al suo Faust: facendo ricorso anche al trucco, come già accennato – ma mai all’effetto speciale -, fra scarti e modulazioni davvero molto frequenti, costringe così l’occhio di chi guarda (lo spettatore) a una serie infinita di “osservazioni” spesso traballanti, inclinate e difficili anche da percepire realisticamente, per ricordarci forse e prima di tutto, che la ricerca – della verità, dell’anima e dell’amore - passa anche per lo sguardo, per uno sguardo che però in questo caso deve essere necessariamente e al tempo stesso, vergine e complicato da mille altre visioni (letterarie, musicali, cinematografiche e pittoriche) (Luca Malavasi).
Se il movimento del film è sinuoso e sinistro in più di un momento, la fotografia di Bruno Delbonnel fa egregiamente la sua parte e il suo mestiere proprio in questo senso nel creare il giusto clima, quando a intervalli irregolari, rifiuta e annulla la prospettiva, e lo fa ricorrendo a strumenti ottici e lenti a loro volta deformanti che contribuiscono a schiacciare o stravolgere l’immagine come se fossimo di fronte a un quadro di Escher, o ci trovassimo a doversi confrontare con le altre avanguardie del Novecento, dal cubismo in poi. L’effetto è davvero straniante e lascia forti segni (qualcuno in sala ha persino dubitato, facendo sentire per altro con forza la protesta incavolata della sua voce – sono le cronache a riferircelo - che si trattasse di un problema tecnico attribuibile a una disfunzione della cabina di proiezione e non una precisa volontà registica) che aiutano a far diventare proprio le immagini alterate volute da Sokurov, una specie di caleidoscopio cangiante, complesso ed evocativo, che oscilla appunto fra la normalità pittorica ottocentesca europea e i piani obliqui di soluzioni quasi astratte, fra i fotogrammi virati al monocromatico e il grandangolo, per addentrarsi poi persino dentro al buio di un tunnel illuminato da semplici lampade a petrolio (un effetto strabiliante che aiuta a rendere più verosimile e molto mélièsiana, anche la scimmietta appollaiata sulla luna che il diavolo inquadra col cannocchiale dentro a una sequenza di nuovo memorabile).
Ritornando all’aspetto “ricostruttivo” e pittorico, sono soprattutto i primi decenni dell’800 europeo a cui intende riferirsi la scenografia del film (lo ha confermato lo stesso Sokurov) ispirata prima di tutto alla pittura tedesca di quel periodo, ma con rimandi però per atmosfere, valore allegorico e cromatismi, anche ai fiamminghi del quattrocento e cinquecento come Brueghel il vecchio (per l’accumulo delle figure in spazi angusti) e Bosch (il suo Il giardino delle delizie, è evocato spesso, ad esempio nella scena del fiume, ma non solo) che non escludono però alcuni accenni non proprio secondari che a me sembra di poter considerare un po’ “caravaggeschi”.
L’operazione di recupero di Sokurov riguarda comunque – e in modo sostanziale - lo spirito popolare originario della leggenda del Faust di nuovo prioritario, tanto che, tenendo contro di tutto quanto è stato fin qui prodotto intorno al “mito”, si potrebbe definire il lavoro operato dal regista come una controinterpretazione delle cose che prova a fare soprattutto i conti con la tragedia dell’evoluzione, e diventa per questo quasi un lugubre “punto e a capo” di una lunga storia ininterrotta che parla di “modernità” che arriva qui al suo termine, ma per essere poi rimessa tutta in discussione. Come ho già accennato prima, qui si ritorna infatti alla figura di quell’alchimista realmente esistito, e alle leggende intorno alla sua vita e alla sua morte, che si diffusero nel paese proprio attraverso i Volksbuck (i libri del popolo) a partire dalla fine del ‘500 e che furono trasferite da subito nel linguaggio più immediato del teatro da compagnie popolari di attori e di marionette, con rappresentazioni comico-farsesche delle sue gesta e dei suoi rapporti col demonio. E Sokurov riparte appunto dallo spirito grottesco di quella tradizione popolare tedesca, contaminandola però con ingredienti e sapori inconfondibilmente russi, per concludere in bellezza la sua tetralogia di demistificazione degli uomini al potere: di tutti infatti e come si è già visto, Faust ne è in un certo senso il progenitore, il prototipo, l’uomo che, libero da sfide teologiche o imperativi morali, aspira al dominio, una figura tangibile che qui non “comprende” - e forse nemmeno accetta - le sacre scritture. Per lui l’anima non esiste, visto che la sua mente abbraccia e accetta solo la conoscenza certa, soprattutto quella umana ed anatomica riferita a ciò che è carnale e terreno, e si fa spesso guidare – anche nel dubbio - dalla pancia.
Si può ben affermare allora che il delirio finale sul vulcano, con Mauricius che arranca dietro di lui, impotente a fermarlo, è l’enunciazione programmatica (e la conferma) del tiranno superuomo che è stato chiamato a rappresentare e definire con la sua presenza quasi assolutista: si farà come voglio io, declama infatti Faust avanzando fra i crateri, e questo è quanto. Ma Sokurov ci ha messo in guardia (o forse e ancora meglio, ci ha già precisato) proprio con questa possente “drammatizzazione” di una iconografia acclarata della storia, che i superuomini non ci sono, non esistono (e di conseguenza nemmeno Faust può aspirare a un tale privilegio), né tantomeno c’è un dio che può investire qualcuno di cotanto potere. Ed è proprio per questo allora, per esemplificare tale assioma per lui probabilmente definitivo e certo, che ci ha regalato una laicissima versione del “Mito e della sua storia” con la quale ha tradotto in immagini il magma che ribolle alla radice di un delirio che è poi l’idea stessa di potere, e dove Faust alla fine prova a districarsi come può dentro quel magma per provare poi a entrare nel mondo, ma riesce solo a fare danni. E anche noi allora forse e proprio attraverso la visione del film, se avremo avuto la forza necessaria per seguirlo fino in fondo e ragionarci sopra, potremmo aver compreso (o meglio ancora aver acquisito la consapevolezza) che probabilmente (non è del tutto certo) che solo l’arte può (provare?) a salvare l’uomo da se stesso.
Poiché però il nocciolo del dramma in Goethe era il rapporto fra Faust e Mefistofele, anche Sokurov struttura il suo discorso proprio da qui, e non lo mette nemmeno tanto in discussione: ci fa solo comprendere però (e non è una differenza di poco conto) che al contrario di ciò che ci è stato veicolato dallo stereotipo a cui accennavo prima, il loro avvicinamento (o incontro) non è una coercizione o una circonvenzione, né tantomeno un miraggio truffaldino, bensì un evento inevitabile, perché se il maligno è e rimane anche qui il tentatore, questo Faust è più che mai esposto alla tentazione, non ne rifugge, pare quasi averne bisogno come l’aria che respira per poter dare corso a quell’impulso alla vita, alla conoscenza e al potere, che altrimenti perderebbe, e quindi i due sono i poli (complementari) di una calamita che inesorabilmente si attraggono fra loro.
Qualche accenno alla fine e ancora, sulla modalità della rappresentazione: l’approccio è fortemente “teatrale” quasi enfatizzante, oltre che magnificamente recitato da un cast di assoluta eccellenza nella resa e nel rispetto di quanto richiesto dal regista (Johannes Zeiler, Anton Adasinsky, Isolda Dychauk, George Friedrich, Antje Lewald, Hanna Schygulla e Florian Brückner); i dialoghi sono di alta levatura, talvolta iperletterari e baroccheggianti, con un andamento fortemente allusivo, straripanti come un fiume in piena che ha rotto gli argini, una ininterrotta turbolenza dai duri accenti teutonici che travolge e coinvolge tutti i personaggi per l’itera durata del film senza mai cambiare tono o tema che fa avvicinare quel blaterare costante - al di là delle parole e dei concetti che esprime - a una musica d’accompagnamento o a una possessione che riguarda tutti, cose e persone : eppure la sceneggiatura dello stesso Sokurov, ma scritta insieme a Marina Koreneva e Yuri Arabov, ha poco a che fare con Goethe, ed è incontestabilmente, “tutta un’altra cosa”. Ci ricorda invece – ed a ragione - che è un film russo anche nelle pieghe più nascoste quello che stiamo visionando, nato cioè in un alveo dove è ancora possibile credere al potere della scrittura, della letteratura, della parola tout court e forse è proprio questa fiducia smisurata - che trapela da ogni parola e immagine – ad aver disturbato torme di critici e spettatori occidentali, allenati a uno scetticismo culturale ormai irrecuperabile (Fabio Vittorini).
Il cinema tra Faust, Mefistofele e Margherita, prima di Sokurov:
Faust aux enfers (1903), Faust e Marguerite (1904) di Georges Méliès
Faust (1910) di Henri Andréani, Enrico Guazzoni e David Barlett
Faust (1915) di Edward Slogan
Faust (1928) di Friedrich Wilhelm Murnau
La bellezza del diavolo (1949) di René Clair
La leggenda di Faust (1949) di Carmine Gallone
Margherita della notte (1955) di Claude Autant-Lara
Faust (1960) di Gustaf Gründgens
Il dottor Faustus (1967) di Richard Burton e Neville Coghill
Mephisto (1981) di István Szabó (citato in maniera indotta in quanto ispirato alla vita di Gustaf Gründgens riletta da Mann)
Faust (1994) di Jan Švankmajer
Faust (2000) di Brian Yuzna
Faust 5.0 (2001) di Àlex Ollé, Isidro Ortiz e Carles Padrissa
Il Mito di Faust e Mefistofele trasposto in musica:
Faust (1816) di Ludwug Spohr
Don Giovanni e Faust (1829) supporto musicale di accompagnamento scritto per la pièce di Grabbe da Albert Lortzing
Die erste Walpurgisnacht (1833) di Jakob Ludwig Felix Mendelsson Bartholdy
Faust Ouverture (1840) di Richard Wagner
La dannazione di Faust (1846) di Hector Berlioz
Szenen aus Goethes Faust (1853) di Robert Schumann
Faust-Symphonie (1857) di Franz Liszt
Faust (1859) di Charles Gounod
Mefistofele (1875) di Arrigo Boito
Sinfonia n° 8 (1910) di Gustav Mahler
Doktor Faust (1925) di Ferruccio Busoni
Votre Faust (1968) di Henri Pousseur
Doctor Faustus (1989) di Giacomo Manzoni
Historia von D. Johann Fausten (1995) di Alfred Schnittke
Doctor Atomic (2005) di John Adams
Faustus, the Last Night (2006) di Pascal Dusapin
Faust (2007) di Philippe Fénelon
[1] Ma - riferendoci solo alle espressioni letterarie tralasciando tutto il resto - ci sono anche: Don Giovanni e Faust (1829) di Christian Dietrich Graube, Faust (1836) du Nikolaus Lenau, Il Dottor Faust. Un poema danzato (1851) di Heinrich Heine, Faust: una storia in nove lettere (1856) di Ivan Turgheniev, Faust (1911) di Fernando Pessoa e Il mio Faust (1946) di Paul Valéry
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